Conosco Goffredo Godi da sempre. Egli era ed è devoto alla memoria del suo maestro, Emilio Notte, e così, nonostante la vita di Goffredo sia trascorsa prevalentemente a Roma, non ha mai mancato di venire a trovare mio padre in tutte le occasioni possibili. Quindi, mi è capitato di ereditare un’amicizia. Davvero singolare. C’è stato poi un periodo in cui ho frequentato Godi spesso, anzi quasi quotidianamente. Il motivo è il seguente: dovevo ricoprire la cattedra di Antropologia culturale presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, prima del mio trasferimento a Milano. Iniziai quindi a cercare casa, il che, come tutti sanno, nella Capitale è affare serio. Godi lo venne a sapere, e con una generosità che sbalordisce, mi offrì il suo studio per tutto il tempo che mi sarebbe occorso. Dire “studio” non rende l’idea, perché si tratta di un appartamento bello ampio, con ingresso indipendente, perfettamente arredato, a due passi dalla Stazione Termini e dalle metropolitane. Comodissimo. Venti minuti ed ero in Via di Ripetta. Fatto sta che in quello studio-appartamento ci ho trascorso quasi un anno. Dunque, per tutto quel tempo mi sono addormentato e mi sono svegliato in mezzo ai suoi quadri. Godi si faceva vedere spesso, ma non spessissimo. Diceva di preferire allo studio “ufficiale” il piccolo studiolo di casa sua, oppure, e ancor di più, l’aria aperta, vale a dire le strade, le piazze, i ponti sul Tevere, i mille scorci che la Città Eterna offre ad occhi non distratti. Perché Godi è un paesaggista di quelli che oramai si vedono solo nei film d’epoca. Un paesaggista che preferisce catturare l’immagine dal vivo, en plein air, come si dice. E dove stanno più? In realtà, penso che volesse anche mettermi a mio agio, non risultare invadente. A casa sua! Quale delicatezza d’animo. Poi, quando veniva, si discuteva a lungo di pittura, della sua pittura, di vita, di politica. Un bel giorno decise di farmi il ritratto, mi mise in posa mentre studiavo e partì in uno dei suoi lunghi viaggi esplorativi sui misteri della forma. Un vero tormento. Quel ritratto non finiva mai, ma proprio mai! Ogni volta che si metteva al cavalletto cancellava il già fatto e ripartiva dall’inizio. Oppure ricopriva col nuovo le pennellate già secche del vecchio. Strato dopo strato quel piccolo ritratto avrà visto venti o più versioni. A me parevano tutte belle, una meglio dell’altra, ma lui non era mai contento.

Durante quelle interminabili sedute di posa Godi rievocava spesso dolorosi ricordi di guerra, il disagio di anni molto difficili, le avventure e le disavventure di una vita lunga e assai meno placida di quanto non riveli il suo volto. Ma lo faceva sempre con il sorriso lieve di chi non è stato toccato fino in fondo nella sua integrità morale e spirituale. Un’accettazione dell’esistenza così com’è che rivela un lato profondo del suo essere. Non si può neanche definire “stoicismo”, perché non vi è in ciò qualche residuo atteggiamento intellettuale, né qualunque presa di posizione teorica sulle brutture della natura umana e sugli abissi di cattiveria testimoniati dalla storia. Direi piuttosto che in Godi alberghi una sorta di spinozismo inconsapevole, per cui lo sguardo rivolto alla natura, e quindi anche alla natura umana, anziché criticare o condannare questo o quello preferisce accogliere, esaminare, vagliare; il che non è lo stesso dell’“accettare”.

Questa attitudine del tutto spontanea si può rilevare e apprezzare nella sua pittura, e spiega anche il perché di quell’insoddisfazione che non gli ha mai fatto finire, come avrebbe voluto, quell’interminabile ritratto. Infatti, Godi è un analitico, e lo si capisce quando questo suo stato di sospensione del giudizio e di elaborazione della logica dei colori e delle forme “reali”, cioè effettivamente percepite dalla retina in una determinata circostanza, si cristallizza nei dipinti veramente riusciti. Però, esso è anche uno stato non sempre raggiungibile; da qui quell’“ansia da prestazione” del tutto particolare. Ma quando invece quello stato di perfetta sintonia con l’oggetto (qualunque oggetto, non ha alcuna importanza cosa sia) è stato raggiunto, allora esce il meglio della pittura di Godi: in tre parole “sintesi”, “armonia” e “vibrazione”. Lo si capisce bene, ad esempio, in alcuni suoi paesaggi. Osservarli è come essere davanti a una finestra spalancata sulla realtà vibrante, che comunica il suo stato carico di segni e di messaggi, ma in forme e colori.

Riccardo Notte


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