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Un angelo con “gli studi”
In partenza per Ischia, Goffredo Godi mi disse che ce l’avrebbe messa tutta, veramente ce l’avrebbe messa tutta, per dipingere dei quadri stavolta meritevoli di essere non soltanto esposti, bensì anche apprezzati. (Ma per tutta la vita non ha ricevuto che lodi!). E mostrando impazienza, quasi già fosse con pennelli e cavalletto in uno degli scenari dell’Isola Verde, scese in dettagli con foga e convinzione, provando a spiegarmi quel che provai a capire.
Il problema che lo aveva arrovellato durante l’inverno era comunque il solito degli anni più recenti. E cioè, come saggiare le regole della prospettiva fino alle soglie del rischio. O per meglio dire, come dipingere non semplicemente dei paesaggi ma, più precisamente, dei paesaggi capaci di sfidare la visione distinta dell’occhio umano, che si allarga fino a 70 gradi, e persino di superarla, tentando di estendere lo sguardo pittorico almeno ad alcuni territori della visione complessiva indistinta, che giunge com’è noto a 160 gradi, accogliendo altresì quanto lo sguardo incontra in alto e in basso.
Problema complesso e però non nuovo, che ne ha avute di risposte nel tempo. Ma Godi vuole dargliene di sue. Così nei mesi del freddo e della pioggia egli prova e riprova ad abbracciare gli esigui orizzonti che gli son concessi, addirittura quello domestico. Lambicca, colora bozzetti, si accalora spiegando come, pur forzando la mano, la successione dei piani possa non sfuggire alle briglie dell’insieme.
Godi “è un angelo” – ha detto il ben noto pittore Armando De Stefano, suo compagno di gioventù a Napoli. Era un’allusione al candore d’un uomo negato a ogni commercio, a ogni malevolenza. Ma io aggiungerei che è un angelo che è passato per l’Accademia, per la cattedra e che insomma “ha gli studi”, come si diceva una volta. E in più, che ha il piumaggio ineffabile dell’intelligenza popolare vesuviana. Sicchè si accalora sì, nei suoi ragionamenti, ma tra un battito di ciglia e un altro si direbbe che ne sorrida. Dopo tutto, anche lui, durante gli anni Sessanta, mise un po’ da parte la prospettiva e fece tuttavia della buona pittura. Godi sa bene, da Dante, Quanto son difettosi sillogismi / Quei che ti fanno in basso batter l’ali.
Poi infatti – ed anche in quest’estate appena trascorsa – Godi si abbandona alla felicità del plein air e almeno il più delle volte, immancabilmente quando il soggetto, paesaggio o figura che sia, lo incanta, lo seduce e lo intriga, egli dimentica i travagli dell’inverno. Ecco allora la sua migliore pittura che è il lungo, ormai lunghissimo, racconto di un innamorato, deciso però ad andare in fondo, finché si può, a tutti i perché del suo amore. Che è l’amore per la natura, quale che sia la forma di essa. E dunque un volto, una marina, un’agave, un’alzatina con la frutta, un rio che serpeggia lento nelle sabbie e tra le dune del litorale romano prima di donarsi al mare. E soprattutto, vedute verdeggianti di colline, olivi, viali. Talché il “suo” colore è il verde, da sempre.
“Rosa è una rosa è una rosa è una rosa” – scrisse Gertrude Stein, come sappiamo. E credo che alludesse a quel che c’è e ci sfugge in un fiore, come in un bouquet o in una macchia o in un albero o in un gruppo di case, o finanche nelle rovine dei Fori romani, che Godi ha accolto in molti suoi quadri. Colonne, architravi e altri reperti archeologici sono stati rimessi in piedi mediante artificio dell’uomo, perciò anch’essi offrono una scena naturale, tanto più che quella è pietra lavorata. Non è così?
Godi dipinge dal vero ma non copia il vero, ci mancherebbe altro. Il suo amore, che è la natura, gli nasconde dei segreti. E lui spogliando e sfrondando, non lasciandosi fuorviare dal superfluo, vuole svelare quei segreti. (Ascose musiche di ritmi, geometrie impossibili, cromatiche delizie). Procedendo per via di sintesi (intendendo questa parola nell’accezione vichiana della riduzione all’unità) Godi attiva la lezione impressionista trasmessagli dal suo maestro Emilio Notte e sperimenta operazioni che possono dirsi addirittura di smascheramento, visto che l’amata, dopo tutto il male che ne disse Leopardi nella “Ginestra”, è adesso è tacciata pure di astuzia. “La natura cela i suoi segreti ed è molto più astuta di quanto non lo siamo noi” – scrive difatti il Premio Nobel David Gross nel suo libro “L’universo affascinante. La futura rivoluzione nella fisica”, recentemente uscito presso l’editore romano Di Renzo.
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Per i novant’anni, festeggiati già in agosto ad Ischia, Goffredo Godi meritava un’“antologica” ampia e accurata. Ma ecco intanto una bella mostra che riassume comunque il suo percorso, qual è questa allestitagli qui a Roma nel Museo Crocetti. Del resto, avendo attraversato Godi diverse stagioni espressive – compresi in esse un post-cubismo della metà degli anni Sessanta e un astrattismo del decennio successivo – è ben difficile rintracciare ed esporre, con pretesa di completezza, sia pure soltanto il meglio di un pittore che lavora intensamente da settant’anni e – “filosofia” magno-greca? – sempre ben poco s’è curato di tenere in ordine un proprio archivio.
Però, a consolazione di Goffredo – l’unico che, assieme a un altro pittore, Eduardo Palumbo, riesce piacevolmente a farmi esercitare la critica d’arte, mestiere dal quale il Presidente della Quadriennale dovrebbe tenersi discosto – posso ricordare allegramente quello che disse Dumas una volta che gli rimproverarono il disordine nel quale lavorava: “E il genio, che ne sarà mentre mi curerò dell’ordine?”
Gino Agnese
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