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Quest’anno, alle prime avvisaglie della calura estiva, il vesuviano Goffredo Godi ha voltato le spalle a Roma – dove vive e lavora da trentasette anni – e se n’è andato per qualche settimana a San Cristoforo, nel fresco del Trentino. Come sempre ha fatto in ogni suo viaggio, anche stavolta ha portato con sé quanto gli occorre per dipingere en plein air: e cioè la “cassetta” (una valigetta di legno che costruì egli stesso) che contiene pennelli, spatole, colori, solventi, nonché tavolette e tele; e un leggerissimo cavalletto “a cannocchiale”, il cui ingombro si riduce a poco. Le vedute di montagna lo hanno entusiasmato, gli scorci e gli specchi lacustri attorno a Levico e a Caldonazzo lo hanno catturato, qualche gita più lontano ha risvegliato in lui momenti e canti. Ed ecco, tradotto in pittura, il bilancio di questo soggiorno: sette quadri di cm 30x40, una misura che poi tanto piccola non è e che, comunque, è tra le predilette dell’artista.






Che cosa si può dire ancora di Goffredo Godi? Come si possono commentare quei sette quadri e quegli altri, recenti anch’essi, ch’egli ha dipinto intorno alla sua casa di vacanza del litorale romano, affacciata sul mare di Torvajanica?





Io che sono un professionista della scrittura da più di quarant’anni, tuttavia non esercito la critica d’arte a cagione di motivi che non è il caso di spiegare qui. Poi, essendo il presidente della Quadriennale di Roma (che assieme alla Biennale di Venezia e alla Triennale di Milano compone la triade delle storiche istituzioni espositive italiane) doverosamente mi astengo dall’esprimere pubblici giudizi sul lavoro degli artisti.





Ma faccio qualche eccezione per chi, come Goffredo Godi, è una persona speciale: un uomo innamorato della vita, uno spasimante della pittura, un patriarca agile e allegro di ottantasette primavere e passa, un artista che ha sempre trovato acquirenti delle sue opere senza averli mai cercati, un paesaggista che attrasse una volta l’interesse di Arcangeli e di Longhi, i due maggiori critici del nostro Novecento, e beatamente lo ignorava (dovetti segnalargli io che era citato nel libro-epistolario di quei due maestri).







Poi, last but not least, Goffredo è mio amico.





E allora, di quei sette quadri dipinti nel Trentino, diciamo subito che, quasi tutti, appartengono alla pittura contemporanea. Sono opere eseguite sul momento, senza preparazione, in quella immediatezza che – Emilio Notte ne fu persuaso – sarebbe per Godi la condizione ottimale. Un’immediatezza, un’urgenza di sintesi, da cui è derivata un’impronta espressionista ben singolare in un autore che, ovviamente per li rami nottiani, discende invece, come tanti della sua generazione, dal post-impressionismo o addirittura dall’impressionismo.





Chi dipinge più en plein air, con tanto coraggio, così dal vivo, con tanta sicurezza? Sono gli ultimi scampoli di una pittura di robusto mestiere, che indaga la natura accogliendo refoli di poesia. La indaga in modo incalzante nei paesaggi trentini e in maniera più analitica in quelli del litorale romano, con esiti meno vibranti ma più compiuti. Una pittura che basta a se stessa, quella affettuosa di Goffredo Godi.


Gino Agnese



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