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È un'artista, Goffredo Godi, che di tanto in tanto con la sua pittura vive nella mia passata fantasia, quando negli anni Settanta nelle escursioni tra le gallerie romane, "La nuova Pesa", "La Borgognona", "La Galleria del Vantaggio" sostenuta da Giuseppe Sciortino de "La Fiera Letteraria", quella accorsata di Vespignani di Via del Corso ed altre ancora, ci si imbatteva in aperte discussioni, ricapitolando assieme ad Antonio Passa, direttore dell'Accademia Di Belle Arti di via della Ripetta, in compagnia di Elio Mercuri e di Diodoro Cossa, su quelli che al momento erano ancora per tanti i canoni che echeggiavano la cosiddetta buona pittura.



Con Goffredo rimasto su quella linea, gli spiragli erano sempre aperti su una tradizione novecentesca che richiamava la funzione figurativa cezanniana spezzata tra i contrasti di un viaggio di cromatismi memoriali e le storiche emotività; e per questo in continue riscoperte di certe stesure di scorcio e di certe quasi misteriose espressività di fulgori invadenti il paesaggio in piena luce. La partecipazione di Godi, che con la sua pittura viaggiava di continuo in tali atmosfere quasi come se il tempo si fosse fermato ad un ultimo impressionismo filtrato dal proprio agire da una certa continuità romana e napoletana, era primaria; perché egli possedeva quell'inclinazione che convogliava ogni sua opera nel sapore di un'epoca ferma in se stessa; di un'epoca trascorsa tra gli insegnamenti di Emilio Notte approdati nell'aria romana del tempo tra i Quaglia e i Failla e la linguistica di Carli, con delle sincerità di sguardi su un paesaggismo misto tra il napoletano e il romano, e con i postumi di un Giuseppe Casciaro ancora descrittivi di transiti sensazionali.




Oggi Godi, dopo più lustri, è ancora lo stesso, fedele al suo tempo, pur attraversando altre certezze del momento, fatte di ben altro. Il suo dipinto manifesta sempre un'architettura naturale con dei codici figurativi presenti per taluni stati d'animo nei dipanati riflessi di sintesi costruttive; ed è tale ancora nella sua quotidianità riportante i ricordi come da una scrittura di un testamento che merita di essere riletto per transiti di figure, montagne, laghetti, mare, cieli, terra, in una completezza di costruzioni rivelate nella loro propria essenzialità.




Intanto, ne rivedo gli stimoli attraverso gli attraversamenti dei luoghi descritti tra "Il laghetto di Villa Borghese" e "La chiatta di Procida" dell'incantata isola tirrenica, napoletana, nel tutto come da un album in cui la veduta o le vedute siano accompagnate da liriche di quotidiana felicità, e in uno spessore poetico misto ad una propositività misurata, eppure sognata tra tanti umori messi insieme.




Godi è un pittore che ama più che altro dipingere paesaggi quali che siano, anche lontani dalla sua terra d'origine, prima di essere pittore d'animo; che anzi questa sua preferenza in un viaggio mai interrotto nel tempo fa rinverdire nel suo presente anche il suo passato con la vitalità di uno stile mai perduto e sempre annotato nelle continue riscoperte provenienti dal suo profondo; ed è anche un figurativo tra i più avvertiti di naturali emozioni, del nostro tempo e della nostra temporalità: un pittore-poeta che declama versi napoletani, di una piacevole napoletanità; e romani, di un romanesco che è sempre nell'aria con i monumenti, le strade, il pincio, Torvajanica con i segreti in essi raccolti, alla pari, appunto, di quelli napoletani delle strade, delle marine e dei borghi, in cui le case affastellate, descritte con una tecnica quasi metaforica, sono vincolate all'espressione di una consacrazione.




Il suo naturalismo pittorico, perciò, è nell'inclinazione allo strappo dei segreti tracciati con tocchi di colore tutti appoggiati gli uni sugli altri che accompagnano la vita del tempo e delle stagioni. In sostanza, in lui è il respiro dell'aria e dei luoghi che dipinge e delle interpretazioni su uno scivolo romantico legato unicamente a se stesso. In fondo, in questo egli è e rimane anche un vero e sentito poeta dei colori e della natura che vive ancora con tutti i disastri dell'abbandono umano, quando non addirittura della distruzione: ed è anche col suo fare un archeologo, se per archeologia voglia anzitutto intendersi custodia del trovato e del veduto con immagini che rimandano al tempo perduto. Il tutto con una propria grammatica segnica di macchie fatte di pittura tonale, di ridenti e piacevoli colorazioni.

Mario Maiorino




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