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È difficile parlare di Goffredo Godi senza descriverne la personalità d'altri tempi, il candore vangoghiano, l'aura da saggio orientale che egli emana quando di fronte agli impeti altrui osserva che, come nei paesaggi che dipinge, tutto scorre e nulla resta immutato, e che la ricerca del successo e il mito della produzione nascondono all'uomo la sua stessa umanità.

Ma questo è Godi, napoletano di origine, romano d'adozione, proveniente dalla migliore scuola che l'Accademia partenopea seppe esprimere intorno alla metà degli anni Quaranta e ben noto e stimato nell'ambiente.

Un singolare personaggio definito da Dario Micacchi «il pittore solare» , e da Michele Bonuomo «l'artista dei piccoli incanti» .

Osservando i rarefatti paesaggi di Godi, rigorosamente costruiti secondo la migliore tradizione «en plein air» , si resta invariabilmente incantati di fronte ad una pittura che si dona all'occhio senza la pretesa di affrontare i massimi sistemi.

Da ragazzo Godi si recava al Granatello, la spiaggia che unisce Portici a Torre del Greco, e lì incontrava Crisconio armato del suo cavalletto da campo e della tavolozza.

Qualcosa della umbratile materia di questo pittore dei Cafè-Chantant e delle nostrane periferie urbane lasciò un segno che si riconosce spesso nei ritratti; ma ben presto Godi scoprì le stereometrie cèzanniane, realizzando d'impulso che lo spazio poteva essere trattato geometricamente e deformato da un'ideale lente convessa.



Questa lezione, che mai più abbandonò, si ritrova nei paesaggi di recente produzione: sovente essi raffigurano scorci metropolitani privati della presenza umana ma non dei suoi moderni manufatti, che anzi tornano a sottolineare un mondo fatto di attese e di silenzi; quando si osservano i cimiteri di automobili o i viali periferici di una città in disordinata espansione dipinti da Godi, è difficile non pensare a Edward Hopper. E, come Hopper, Godi cerca refrigerio nelle amene contrade, dove si reca, puntuale alla stessa ora, per cogliere dal vero una rupe, o una sinfonia floreale o l'intrico di una foresta, ma senza alcuna concessione ad un banale naturalismo. Il mistero della natura non ha accessi; tra il linguaggio umano e la verità delle cose non esistono ponti. Accade così che Godi, quasi inconsapevolmente, trasformi gli elementi del paesaggio in un intrico di segni apparentemente significativi, in realtà enigmatici, sottratti appunto ad una lettura precisa, codificata e univoca, come vorrebbe lo spirito del mondo che domina la contemporaneità.

Riccardo Notte


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