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Peccato che abbiamo perduto cultura e gusto di scrivere le «Vite» dei pittori e degli scultori. Chissà se ci sarà un recupero da parte della storiografia artistica con la elettronica. L'esistenza degli artisti contemporanei è così fitta di appuntamenti, spettacoli, jet, mostre, mass-media, aste, giornali, incontri al vertice per la spartizione del potere in ogni dove, registrazioni radio e televisive.

Insomma, una vita piena fino alla nausea e alla fuga: ma se molti dichiarano la nausea, nessuno fugge. Il fatto strano è che, con tutto questo delirio di incontri e di appuntamenti, quando si va a ricotruire e a riscrivere la vita di un artista contemporaneo e il suo percorso poetico e la collocazione delle sue opere spesso ci si trova al buio; tanto che quasi sempre è più facile ricostruire vita e percorso di un artista medioevale o rinascimentale.


 

Pensate, un momento, alla parte che ha preso nella nostra vita il telefono nei rapporti umani e culturali: ebbene, di tutto non resterà traccia, mentre l'antica tradizione dello scrivere si va spegnendo. Se ho dato un segno sbrigativo a una situazione culturale qual è fatta da una società che esige una produzione rapida e un consumo rapidissimo anche nel campo della produzione artistica, è per meglio illuminare la singolare figura umana e poetica di Goffredo Godi, nella quale la ragione del comportamento esistenziale coincide profondamente con la ragione pittorica.


Goffredo Godi ha vissuto e lavorato molti anni a Napoli; da alcuni anni vive e dipinge a Roma ma con sistematici e liberatori soggiorni estivi al mare di Calabria. L'ho incontrato da sempre alle mostre, riservato, sorridente, dolcissimo; sapevo vagamente che faceva il pittore: lui mai che dicesse di sé una parola, che chiedesse qualcosa. Certo è che delle vicende della pittura sapeva tutto ma nell'ambiente artistico ci stava e lo attraversava con un suo enigma, con un suo segreto. Poi, un giorno, per interessamento dell'amico comune Bruno Canova, c'è stato l'incontro a studio e la sorpresa grande, la rivelazione di un pittore diverso dagli altri, solare, mediterraneo, dotato di un'impressionante naturalezza e di uno stile costruttivo «en plein air» non impressionistico ma fortemente strutturato, cèzanniano, con dei colori trapassati di luce che sembrano coagulare rapidamente da una colata dell'immaginazione: insomma, un rapporto esaltante con la natura che è un ritrovamento di una certa idea serena e luminosa del mondo che Goffredo Godi si porta dentro.


 

Ecco perché ho detto che abbiamo perduto cultura e gusto di scrivere le «Vite», quelle «Vite» per cui dal Vasari sappiamo delle stranezze di comportamento del Pontormo che sono perfettamente in linea con la perdita di centro e con la melanconia manieristica; e dal Bellori e dal Mancini sappiamo del carattere fiero e rissoso del Caravaggio così in linea con la sua rivoluzionaria pittura della realtà dei simili e dei peggiori. Una volta vista la pittura di Goffredo Godi si intende così la sua riservatezza come il suo enigma. Goffredo Godi intende il rapporto con la natura e con la particolare natura mediterranea nella luce terribile dell'estate piena come un rapporto molto puro, e che da niente deve essere inquinato.


 

Egli ha un metodo severo ed esatto, tutto suo, per portare lo sguardo alla massima ricettività e trasparenza contemporaneamente alla massima incandescente di quella immaginazione di un mondo sereno, diamante di luce, che si porta dentro. È una tensione dell'energia che non è facile da raggiungere e che se non c'è non si verifica lo «stato di grazia» nel rapporto con la natura.

Si potrebbe dire che Goffredo Godi viva in attesa dei mesi folgoranti dell'estate. Dipinge dal vero sul motivo cosmico, paesistico, ambientale; ma si è caricato per mesi e mesi e con tutto quello che ha visto e sentito. Quando il sole è allo zenith dà le sue risposte con una «scrittura» di colore rapida e infallibile nel tono e nel valore di luce.


 

I luoghi sono assieme naturali e mentali: le pendici vesuviane e le apparizioni del mare nel giro d'un piccolo golfo o tra le piante della costa calabrese. Il sole fuori ma anche il sole che «ditta» dentro. La struttura fuori e la struttura dentro. La luce al massimo: il soggetto al minimo. Le ombre sono anch'esse colore-luce con una qualità strutturale. La volumetria del motivo paesistico, con o senza figure, è assai spiccata e aggetta da grandi masse tonali come da colate rapprese sulle quali ha vitalistica evidenza materica la velocità della mano che accenna ad alberi, arbusti, rocce emergenti o oggetti della presenza umana sempre molto immersa.


 

S'è accennato agli anni napoletani di Goffredo Godi ed è possibile che abbia raccolto e portato avanti qualcosa del vitalismo erotico, furioso e liberatorio di Crisconio e anche qualcosa del cèzannismo popolano, così carico di umori locali e internazionali, di Notte. Ci sono con le date a posto dipinti di Goffredo Godi neocubisti, neorealisti, neonaturalisti nel «clima» di «Ultimo naturalismo» versione napoletana. Ma ecco che ritorna in scena il carattere schivo e riservato dell'uomo; e così ufficialmente quasi non c'è traccia di dipinti che pure per la qualità sarebbero di primaria importanza.


Ma torniamo al dialogo col sole e con l'estate mediterranea. Goffredo Godi ha con la struttura del paesaggio meridionale e mediterraneo un rapporto ossessivo ma gioioso, del tipo moderno che Paul Cèzanne ebbe con la montagna «Sainte-Victoire» dipinta e ridipinta per cercare di fissarne la struttura volumetrica con «taches» di colore-luce.

L'ambizione costruttiva e lo stile costruttivo dell'immagine di natura, per forza di colore-luce, fanno la modernità di Goffredo Godi e la naturalezza rara e assoluta della sua autenticità. Certo ci sono affinità e riferimenti: c'è il De Staël del viaggio in Sicilia; c'è il Melli del sole a piombo sulle terrazze e sul sonno della moglie nelle stanze romane; c'è il Pirandello della terra arsa e delle spiagge con i bagnanti come un esodo; c'è Morlotti con lo spessore della terra e le forre e i campi di granoturco e le viti di Lombardia.


Ma non è soltanto il motivo del paesaggio meridionale che Goffredo Godi identifica col suo mondo, ma qualunque cosa dipinge assume quel carattere di ritrovamento di un'identità, eterno e assoluto: basta saper vedere quel piccolo dipinto con le carcasse di auto cose buttate via ma che la luce riscatta quasi fossero ossa: Goffredo Godi le ha dipinte come un altro pittore in altri tempi dipingeva un cranio o un bucranio.

Queste carcasse d'auto in piena luce sono uno scandaglio sicuro dello spazio ma anche uno scandaglio della coscienza. Non diversamente, credo, sono trattate le figure sulla spiaggia e sul mare: strutture, scandagli di un dominio e di una serena occupazione e tenuta umana dello spazio terrestre: l'occasione è quotidiana e feriale ma il rito è fondante e mitografico. Senza illustrazione, senza racconto, i dipinti di Goffredo Godi quasi non si possono titolare ed è anche difficile dire se quella luce lì, rimandata dalla chiarità verde azzurra del mare, sia la luce del 1975 o la luce del 1982 a una certa ora di un certo giorno. Segno che si distende sul tempo lungo questa ricerca della luce del mondo cui corrisponda la luce interiore dell'immaginazione umana. Goffredo Godi punta sempre a un'unità di visione.


 

Al di là dei giorni e delle ore punta a un carattere sintetico dell'immagine, pure nella gran varietà degli elementi naturali. Anche i colori, di gran varietà e ricchezza, sono ricondotti a un'armonia generale di contrasti e di accordi musicali. Come faccia Goffredo Godi a tenere inalterata questa gran luce che fa la trasparenza del mondo è il suo enigma di lirico puro e intransigente, in un tempo in cui calano grandi e paurose ombre e il mondo è tornato a farsi maledettamente opaco.

DARIO MICACCHI


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