È un’umiltà del tutto sincera, quella di Goffredo Godi, il pittore vesuviano ma romano di adozione, che guarda la natura con la tenera attenzione di un innamorato. L’intervista, qui riportata, si è svolta nella sua abitazione a Roma, dove tuttora vive e opera. Il maestro non ama molto parlare della propria pittura, né attirare l’attenzione su di sé, pensa che le opere possano comunicare meglio delle parole, tuttavia si dimostra particolarmente disponibile e, quando ne è costretto, accenna alla sua lunga e intensa attività solo in termini di passione e impegno costante. Durante il colloquio emergono molti ricordi, quelli d’infanzia, di quel bambino che preferiva “sporcare” la carta piuttosto che giocare, e quelli degli insegnamenti dei suoi maestri: Giuseppe Palomba ed Emilio Notte. |
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Lei s’iscrisse alla Scuola di Incisione su Corallo “Maria Josè del Belgio”. Chi le parlò dell’esistenza di questa scuola? Da ragazzino, mentre frequentavo la scuola elementare, il pomeriggio, fino a tarda sera, andavo a lavorare come garzone in una sartoria. Mi piaceva molto disegnare, perciò, quando mi era possibile, mi nascondevo in un angolino a disegnare. Eravamo ai primi giorni del 1935, quando, in assenza del principale mentre schizzavo a penna il ritratto di una ragazza della sartoria, entrò un signore molto anziano, aveva lunghissimi capelli bianchi e vestiva in modo stravagante. Guardò il mio disegno e disse: “Sei bravo…Vuoi proprio fare il sarto?” Gli risposi imbarazzato di sì e capì che quel sì aveva altro significato, quindi mi diede l’indirizzo del suo studio. L’indomani mattina vi andai, mi mostrò la sua produzione artistica e mi parlò dell’esistenza a Torre del Greco della scuola di incisione su corallo. Gentilmente volle accompagnarmi personalmente e presentarmi ai professori. Da quel momento cominciai a frequentarla con entusiasmo. Nell’aula di modellato insegnava il professore Giuseppe Palomba, che era stato allievo prediletto di Michele Cammarano. Egli lavorava molto creando modelli per aiutare gli allievi a capire come modellare riducendo a pochi piani l’oggetto. Ricordo, inoltre, i professori Renato Ferracciù, Luigi Scognamiglio, Vincenzo Noto e Augusto Fiengo. Renato Ferracciù aveva fraterna amicizia con il Ministro Bottai e fu nominato direttore della Scuola e insegnante di Storia dell’Arte. Luigi Scognamiglio insegnava disegno geometrico ed Architettura mentre Vincenzo Noto era docente di tecnica dell’incisione su corallo, madreperla, avorio e pietre di lava. Infine, il professore Augusto Fiengo insegnava cultura generale. Gli allievi erano pochi perché quasi tutti gli studenti appena imparavano ad incidere andavano a lavorare in laboratori privati che producevano cammei di tutti i tipi. Tali laboratori a Torre del Greco erano numerosissimi, quindi la richiesta di incisori specializzati era elevata. |
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Fu catturato dai tedeschi a Grasse, cosa ricorda della prigionia? A marzo del 1940 fui chiamato per il servizio militare, a giugno ero già in guerra sul fronte italo-francese. La notte di capodanno del 1941 ero in Albania, a marzo dello stesso anno fui colpito da congelamento di secondo grado ai piedi per cui fui inviato all’Ospedale militare di Modena. Lì mi curarono e mi inviarono a casa con licenza di tre mesi di convalescenza. Approfittando di questo periodo di convalescenza studiavo per prepararmi a sostenere come privatista gli esami di maturità al Liceo artistico. Nei giorni in cui sostenevo gli esami scadeva tale licenza, ma io, incurante del rischio di essere dichiarato disertore, terminai gli esami e mi presentai al mio reparto con più di una settimana di ritardo. Il colonnello comandante del reggimento mi rimproverò solennemente, poi mi disse: “Qui abbiamo chiesto un disegnatore che non arriva. Ti trasferisco alla compagnia, comando del Reggimento in qualità di disegnatore”. Dopo circa un anno fui trasferito al Quartiere Generale del Primo Corpo d’Armata, la cui sede era a Grasse, in Francia. Il 9 settembre 1943 fui catturato dai tedeschi e tradotto al lager XII A di Limburg, in Germania. Per l’intervento del cappellano Don Manfredo May nella baracca n. 1 dove alloggiavamo costruimmo, con mezzi di fortuna, una cappella; sull’altare vi dipinsi una Crocifissione. Nei primi giorni di prigionia, i tedeschi, tramite interprete chiedevano ad ognuno di noi, quale fosse il proprio mestiere. Io mi presentai come sarto, sperando così di evitarmi il lavoro in miniera. Il campo di concentramento era molto vasto. Tra questo e la strada c’era il campo militare delle sentinelle. La strada era recintata da reticolati da ambo i lati e attraversava tutto il campo che era spartito in settori secondo le nazionalità. Per ogni settore c’era la porta con la sentinella ed un rilevante numero di baracche tutte fatte allo stesso modo. Una di queste, di fronte alle cucine, era stata adibita a laboratorio per i sarti da un lato e per i calzolai dall’altro. Eravamo prigionieri di diverse nazionalità: italiani, francesi, russi, americani, inglesi, slavi, rumeni e polacchi. Nelle ore di intervallo, da mezzogiorno alle due, spesso, sfuggendo al controllo della sentinella, me ne andavo nelle cucine e su pezzi di carta schizzavo ritratti ai cucinieri ed in cambio ricevevo cibo per me ed i miei compagni. |
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Quando frequentavo il corso di pittura all’Accademia il Maestro, intorno al suo studio, aveva assegnato ad ogni allievo un notevole spazio che, recintato da grandi pannelli, fungeva da studio. Così ognuno di noi, raccolto nel proprio ambiente, aveva la libertà di sperimentare quanto il proprio estro gli suggeriva. Lo studio del Maestro era aperto agli allievi in tutte le ore del giorno. Egli era un profondo conoscitore della tecnica, della reazione dei colori e della loro metamorfosi nel tempo. Molto colto, amava discutere e ci incitava a fare altrettanto fra di noi. Quando a Napoli si teneva una mostra di rilevante importanza, gli piaceva visitarla con gli allievi per poi, se il tempo lo consentiva, passeggiare insieme per le vie della città discutendo di vari argomenti. Tutti noi allievi amavamo quei momenti: la sua eloquenza ci incantava. Ci trattava come figli e noi, anche in riferimento alla sua lunga barba bianca, ma soprattutto perché ci sentivamo figli della sua arte innovativa, scherzavamo chiamandolo Padre Notte o, più famigliarmente, papà Notte. A volte ci raccontava episodi della sua infanzia e giovinezza, dei suoi genitori veneti e soprattutto del padre Giovanni che, per lavoro, era costretto spesso a trasferirsi, portando con sé la famiglia. Infatti, era nato a Ceglie Messapica, in Puglia, perché il padre era stato inviato lì a reggere l’Ufficio di Ricevitoria del Registro. E frequentò, nonostante non avesse l’età, l’Istituto di Belle Arti di Napoli (che diventerà Accademia), a partire dal 1906, perché in quel periodo il padre, che era stato ancora trasferito e vivevano a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, aveva notato la sua attitudine per la pittura e lo aveva presentato a Vincenzo Volpe che dirigeva l’Istituto e che accolse con tale entusiasmo i suoi lavori da affidargli uno studiolo presso il suo studio. E, sempre per un trasferimento del padre, nel 1908 si stabilì a Prato dove poté entrare in contatto con il fervente clima culturale fiorentino che lo portò a sviluppare a pieno la sua formazione partecipando attivamente al movimento futurista. Con orgoglio ricordava che il suo quadro del 1919 “La strada bianca” fu il primo quadro futurista acquistato dal re d’Italia. Ci raccontava del suo soggiorno milanese e la felicità di essersi stabilito definitivamente a Napoli nel 1929, quando ottenne la cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti che portò avanti per quarant’anni, sempre aspramente osteggiato da tutto l’ambiente artistico napoletano, ancora legato all’estetica ottocentesca. Mi diplomai nel 1950. Alcuni mesi dopo, mentre dipingevo sull’uscio di casa mia, vidi venirmi incontro Gaetano, l’uomo di fatica dell’Accademia e dello studio di Notte al quale il Maestro, nella sua generosità, offriva continue opportunità di guadagno. Mi consegnò una lettera di Notte che mi comunicava di raggiungerlo subito perché c’era un lavoro per me. In meno di un’ora lo raggiunsi, mi disse di recarmi da Domenico Spinosa che mi attendeva avendogli lui suggerito di assumermi come suo assistente. Lo trovai nella sua classe, mi presentò agli allievi e così cominciai subito a lavorare con entusiasmo. Dalla cattedra, mentre correggevo i lavori degli allievi, osservava tutti i miei movimenti, poi mi affidò un gruppo di allievi e con tono autoritario mi disse di portarli avanti. Spinosa, dotato di buona cultura e ottima preparazione accademica, era ottimo pittore che dava al colore espressività lirica. Metteva molta passione nel dimostrare agli allievi come, guardando il modello nel suo insieme, dovevano disegnare distribuendo con equilibrata stesura i volumi che lo componevano. Se, mentre correggeva i loro lavori, scopriva che un allievo non aveva capito l’essenza del suo aggiornatissimo insegnamento s’innervosiva ed alzava a tal punto il tono della voce da sgomentarlo. Mi voleva bene come fossi stato un suo fratello più giovane, come tale ci teneva a guidarmi ed io, sapendo di renderlo felice, lo assecondavo. Il rapporto di amicizia era talmente affettuoso che quando mi sposai accettai con piacere che lui e la moglie facessero da testimoni. |
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Qual è stata la sua esperienza alla Quadriennale di Roma? Nel novembre del 1955 partecipai alla VII Quadriennale di Roma con l’opera“Bosco di Portici”che fu venduta alla Galleria d’Arte Moderna di New York. Nel 1959 all’VIII Quadriennale di Roma presentai l’opera“Padule di Resina”che era esposta nella sala n°30. |
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Per quale motivo nel 1970 si è trasferito a Roma? Dal 1953 ero incaricato alla cattedra di ornato disegnato al Liceo Artistico di Napoli, nel 1961 vinsi il concorso per il 1° Liceo Artistico di Roma, restai a Napoli fino al 1969 e nel 1970 dovetti occupare la mia cattedra e trasferirmi a Roma. |
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Cosa pensa della produzione artistica attuale? L’industria, per la produzione di massa di oggetti d’uso comune, spesso si rivolge all’artista per la progettazione di prototipi che, visti con l’occhio del colto in estetica, dovremmo accettare come autentiche opere d’arte. Ma da qui, esagerando eccessivamente, si è arrivati a voler vedere in ogni oggetto l’opera d’arte, perfino nei prodotti della natura. Penso che, dai graffiti della preistoria, passando per l’arte classica e rinascimentale fino ad oggi, l’arte abbia sempre avuto la funzione di raccontare. Di quale messaggio possiamo essere fruitori se guardiamo esposti in galleria d’arte mucchi di spazzatura, casse da imballaggio o qualche grappolo d’uva poggiato sulla paglia di una sedia sgangherata? L’attento osservatore che per naturale istinto ha in sé capacità critiche, sentendosi smarrito e deluso, rischia di perdere parte di quella carica emotiva che lo ha contraddistinto come amatore d’arte. Oltre la negatività del suddetto concetto potremmo ben dire che gran parte della produzione artistica attuale, anche se cumulata da esperienze impressioniste, cubiste, futuriste o astratte, se carica di giovanili energie e vigore eccellente, sia molto positiva. |
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Le piace dipingere dal vero, per quale motivo? Non mi piace dipingere da fotografie, preferisco il vero perché mi da la possibilità di cercare l’equilibrio spaziale e cromatico, cosa importantissima per l’impostazione di un quadro. In quasi tutte le mie composizioni, per rendere più estesa la trama dello spartito, fisso il punto di vista alla distanza più ampia possibile dalla linea di terra. Mi piace dipingere dall’alto dei monti, attraverso i vari strati dell’atmosfera, le rocce delle valli, i verdi degli alberi e dei prati degradanti dal giallo all’azzurro, i fiumi serpeggianti tra le rocce ed i prati, le case di colore diverso agglomerate e sparse per le vallate, il mare spumeggiante tra gli scogli graduato da passaggi di tonalità dal verde-azzurro all’azzurro-viola, le isole distanti. |
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Si è interessato molto alla ritrattistica, che importanza ha per lei questa forma d’arte? È bello analizzare il volto umano, capire come i muscoli mimici, per le emozioni, si muovono e quasi rivelano le varie fasi del pensiero. Giacché noi siamo la sintesi di tutto ciò che fin dalla nascita abbiamo visto, goduto, sofferto e ancora sperimentiamo, quali e quanti alimenti dello spirito hanno formato e continuano a formare la nostra coscienza! |
Immacolata Marino
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