Il percorso artistico del pittore ha avuto forti testimonianze critiche, attraverso le quali, non solo si intende leggere i momenti essenziali della sua arte, ma si rievocano, ogni volta che l’attenzione cade su di lui, la sua umanità e la sua umiltà disarmanti.

Domenico Spinosa è stato uno dei primi a riconoscere il suo talento, nella rivista napoletana «Nostro Tempo», nel 1956, così scrive[1]: «[…] Godi è tra i più favoriti pittori giovani che oggi Napoli possa presentare. Fino a qualche anno fa gli si poteva dare atto della sua ottima preparazione tecnica effettuata alla scuola di Emilio Notte, ma il travaglio della sua formazione di artista non lasciava valutare pienamente i risultati del suo lavoro.

Oggi Godi ha messo a frutto il valore di quegli insegnamenti ed i risultati delle sue ricerche.

La strada che il pittore si è scelta ci sembra la più convincente, anche in relazione al suo temperamento di acuto osservatore del mondo visibile e di artista, che pure non mostrandosi insensibile al fascino del colore non saprebbe trascurare il valore della forma.

Godi, allo stato attuale, è un pittore che sente viva la presenza dell'istanza sociale nei suoi problemi artistici ma non vuole cedere al falso miraggio delle formule neorealistiche, né potrebbe, per la suaccennata sua preparazione antiaccademica.

La sua pittura vuole essere fuori da ogni cifra di parte, libera e spiegata, per la realizzazione di un discorso schietto e nuovo intorno a quel mondo di gente umile e buona, nel quale ha vissuto e tuttora opera e vive».

Del fatto che Godi non si sia mai legato ad un movimento artistico, ma abbia lavorato da solo, da autentico artista, ce ne parla Armando Miele nel saggio [2]La cittadella Arte”datato 1967.

«In un clima, come quello attuale, di spericolate esperienze e di roventi o clamorosi scontri polemici, la posizione di Goffredo Godi può apparire circoscritta in un isolamento rinunciatario, se non sprezzante.

Riluttante ad inserirsi in uno schema di corrente non meno di quanto sia reticente ad esibirsi, egli opera, in effetti, nello spazio già ridotto da consolidate conquiste ed ulteriormente minacciato da scorrerie devastatrici: lo spazio entro il quale resta arroccata quella pittura che respinge ogni repentina frattura del filo di continuità evolutiva. In questa cittadella assediata, Godi si pone, tuttavia, per libera e consapevole elezione, desunta dal suo temperamento autenticamente umile, emotivo e coerente. Perché il suo linguaggio espressivo — legato a «valori» pittorici tradizionali, filtrati attraverso esperienze neocubiste — si adegua al suo modo di porsi al cospetto della natura e della società, alla sua dimensione morale di uomo teso ad esprimere, senza infingimenti drammatici e senza velleità di scandagli abissali, la realtà alla quale istintivamente e profondamente aderisce, nei limiti di accessibilità e di superabilità in cui essa gli si propone. Limiti nell'ambito dei quali Godi si muove trascinato da richiami ancestrali misti a sentimenti di genuina purezza, con volontà di ricerca finanche caparbia e con un evidente anelito di sublimazione del dato sensibile.

[…] Per quanto solitario possa sembrare pure nella cittadella in cui, con estrema probità, si è posto, Goffredo Godi è, in verità, un artista capace di comunicare con chiunque in virtù della intensa carica umana che alimenta, come forza endogena, la sua pittura».

Del suo inconfondibile e commovente mondo poetico, ci scrive Antonio Colasanto in un articolo pubblicato [3] sul “Roma” nel 1969.

«[…] Godi non è inserito, né intruppato in alcuna corrente artistica. Egli opera liberamente pur rispettoso della tradizione in una sorta di "continuità evolutiva".

Il nostro artista riesce ad esprimere senza drammi la realtà alla quale aderisce filtrandola attraverso esperienze neo-cubiste.

I suoi paesaggi vesuviani sono ricchi di mito, di colore, di luce pur espressi con sintesi e immediatezza.

Una nota dominante è l'essenzialità dei segni nella definizione plastica che ci offre un mondo laborioso e semplice.

Quella che Godi propone è un'arte moderna che non si assoggetta ad elementi extra-artistici, né rinuncia all'elemento umano in favore di potenze estetiche non artistiche, perché è arte "vera".

Con questo non voglio dire che la vera arte possa esistere solamente entro le correnti conservatrici dell'arte moderna perché sarebbe sbagliato allo stesso modo se si volesse escludere che anche da queste correnti possa venire fuori arte "vera".

Se da un lato c'è un degenerare nel conformismo della pittura moderna, c'è dall'altro il processo, lento nel prendere quota, di un gusto nuovo, universale, esteso a tanta parte del mondo moderno.

[…] Godi, noncurante delle novità e delle sperimentazioni, prosegue con coerenza il proprio lavoro cominciato tanti e tanti anni orsono quando giovanetto ebbe la ventura di essere allievo di Emilio Notte.

Ora continua, con umiltà, offrendo il frutto maturo, pregiato, della propria esperienza, sensibilità ed elaborazione in un insegnamento fatto di ideazione ed espressione equilibrati.

Le sue tele sono: "paesaggi" ricchi di colore e di luci espressi con sobrietà ed immediatezza; "maternità" e "fanciulli"; ricordi non sempre lieti della fanciullezza ove le notazioni umane si trasformano in aneddoti; un mondo di semplicità e di lindore ove tutto assurge a poesia.

Testimonianza dell'ottimo e finissimo pittore e soprattutto del suo inconfondibile e commovente mondo poetico.

Ma l'incanto si realizza a pieno nelle composizioni deserte di presenze che, con effetti cromatici sapientemente disciplinati e sorvegliati, e con segni ridotti all'essenziale, narrano sotto voce, appena bisbigliando, lunghe e patetiche storie che ridestano tante memorie.

" ...le sue opere sono poemi, - scriveva Boudelaire di Delacroix -, grandi poemi concepiti con l'ingenuità del genio... la natura è un vasto dizionario del quale svolge e consulta le pagine con occhio sicuro e profondo; e questa pittura, che nasce soprattutto dal ricordo, parla soprattutto alla memoria ".

So di essere misurato e comunque nel giusto proponendo di "girare" questo giudizio al Maestro Godi, vesuviano, come me, di adozione».

Pasquale Fiengo gli rende omaggio così [4]: «L'incontro con un artista che lavora seriamente per qualcosa in cui crede da sempre, rappresenta un lavacro dai quotidiani pensieri, una elevazione verso una sfera pura di spiritualità. Il pittore Godi di cui altre volte ho potuto ammirare opere ispirate, oggi ha raggiunto una piena maturità; le sue raffigurazioni hanno la freschezza della istantanea ed un'architettura intima e poetica insieme. Carico com'è di impressioni naturalistiche per i suoi assidui appassionati incontri con la Natura, adesso potrebbe narrare, pittoricamente, s'intende, le visioni dei suoi paesaggi e svelarci la magia di questi ricordi. Chissà che in un futuro prossimo non assisteremo a questa naturale e necessaria evoluzione.

La pittura di Godi, di ispirazione «nottiana» originariamente, consiste essenzialmente strutturata in un cromatismo impressionistico e, talora, astrattistico, del paesaggio o della figura, che da oggetti diventano per l'autore soggetti veduti attraverso il prisma di una emotività sincera ed appassionata. I monti e le colline più brulle e nude, le rocce vesuviane, squallide e millenarie, che serbano il dramma della storia geologica campana, la gente umile e laboriosa concentrano gli interessi di quest'Artista che ama le cose e le genti semplici a qualunque grado appartengano; e il suo atteggiamento direi timido racchiude tuttavia una forza piena di coraggio, uno spirito anticonformistico ed audace in un mondo arrivistico come il nostro, dove la politica più che il genio seriamente coltivato ed espresso dà il lauro a pittori e ad Artisti in genere, per cui l’arte è pur'essa travolta spesso dalla moda, dalla mistificazione e dall'imbonitura. Lascio a voi enumerare i casi di pseudo artisti di primissima importanza senza le basi del disegno, delle ombre, e del colore. Essi, sotto la buona scusa del modernismo, nascondono il loro imbecillismo oppure la furbizia di uomini introdotti in punti-leva del commercio delle opere d'arte: si fanno convenientemente presentare da critici prezzolati e fanno fortuna.

Ultimamente Godi ha esposto alla Galleria «La Scogliera» di Vico Equense che per merito e zelo di padre Bonifacio Malandrino rappresenta la passerella di pittori notevoli, affermati di già nel campo nazionale, oppure di sicura promessa.

Sono una quarantina di opere prodotte tra il 1965-'69; generalmente paesaggi, qualche figura.

Con questa mostra è indubbio che Godi abbia sollecitato l'interesse di molti collezionisti d'arte, ciò vuol dire che finalmente viene scoperto e valutato come merita, non perché i collezionisti decretino il successo di un pittore, ma lo completano sul piano concreto. Voglio pertanto ricordare che egli ha sempre rifuggito la vanagloria, i salotti, la pubblicità, si è tenuto in disparte dalla mischia dei briganti, di coloro cioè che anelano al successo immediato. Invece ha coltivato con assiduità la sua passione, e solo per meriti personali ha ottenuto premi a carattere nazionale, […].

Quindi il nostro pittore ha scavato il suo bravo solco lentamente e profondamente, ed ha avanti a sé aperto un più luminoso avvenire.

Difatti Godi vuole rompere quella specie di cortina che lo separa dal pubblico, crede ormai che la gente abbia diritto di conoscere i frutti del suo silenzioso mondo, vuole un contatto più diretto nel commercio delle idee e delle opinioni e questo è senz'altro segno evidente di una sua nuova svolta di rinnovamento spirituale, una spinta più coraggiosa verso il traguardo della piena coscienza del suo mondo pittorico e della sua forma espressiva».

Uomo e artista in una singola identificazione, come sottolinea Arcangelo Izzo[5] in un’acuta lettura del 1969.

«…. Uomo che non sa fingere né simulare, ma aperto con ognuno e largo, Goffredo Godi, in una società smaliziata come la nostra, appare come persona, quasi unica, che porti nella coscienza una particolare disposizione spirituale, ora aperta alla verifica della realtà, ora tesa alla comprensione dei limiti umani, in se stesso riflessi e meditati, ora ancorata all'esaltante esperienza della tecnica e della scienza. La sua umanità, quindi, e la sua umiltà disarmanti confondono chiunque abbia la pretesa di giudicarlo dopo un solo incontro. Perciò coloro che hanno con lui un sodalizio, fondato su sentimenti veri e su rapporti di comune operosità, lo ammirano sino alla venerazione, mentre altri, maliziosamente lo fraintendono. Ma Godi smentisce, senza volerlo, tutti costoro, perché continua, indifferente al chiasso che lo circonda, il cammino lungo la sua strada, immune da tormenti speculativi di origine intellettuale, ignaro di ogni eccesso di ragione e di civiltà. E sbaglierebbe chi pensasse a un suo atteggiamento sprezzante, a un suo isolamento voluttuoso o mistico, in quanto Godi ama la vita, scruta la natura con occhio disincantato, cerca la compagnia degli altri uomini con lo stato d'animo di chi ha spesso sofferto e gioito con loro, ma che tra loro ha raggiunto un particolare stato di grazia così da poter guardare tutte le cose con grande distacco di spazio, ma non di cuore. E quale è l'uomo, tale è l'artista. Perciò non occorrono magie e alchimie per giudicare la pittura di Goffredo Godi, non occorrono alambicchi e provette per scoprire le formule del moderno linguaggio critico-scientifico onde definire le opere di questo maestro che, a volte, è timido e impacciato come un alunno. I suoi disegni rivelano un'immediatezza d'intuizione e una trasposizione d'immagini, scarnificate al massimo, rese felici dal movimento rapido, dalla linea quasi sempre continua, dalle curve decise e armoniche, dalla freschezza del tratto, che scopre la purezza sorgiva delle idee, la perenne giovinezza del sentimento. I suoi quadri sono la proiezione cromatica e lirica della sua personalità e della sua spiritualità. Le larghe fasce di pittura, che coprono ampie superfici, denotano subito l'esperienza dell'artista che ha semplificato al massimo il disegno, affidando al colore la significazione di contenuto e di forma. I cieli larghi e dominanti, sottesi alle figure o sospesi sui paesaggi, racchiusi in forme geometriche non del tutto definite, luminosi per una magia interna del colore, per una intrinseca purezza cristallina, che a Godi riesce naturale come la sua semplicità di uomo, sono di un'efficacia immemorabile. I suoi prati, le campagne distese a zone, i suoi monti, i paesaggi arroccati nell'armonia del colore, inventata piuttosto che resa secondo la fedeltà ai canoni naturalistici, non sono rappresentazione della realtà usuale, non riflettono cose già esistenti, ma risultano piuttosto trasposizione e associazione di fermenti immaginativi e di sensibilità lirica. Così anche la purezza e il lindore dei colori rendono distesi e limpidi l'acqua di certi laghi che, incastonati tra le rocce, sembrano dissetanti all'occhio dell'osservatore che è costretto ad avvicinarsi al quadro, attratto da un'inconsapevole spinta del gusto. Infine ci si accorge che Godi, dopo aver assimilato correnti di pensiero e di gusto, ha affinato e contemporaneamente allargato la sua cultura e la sua conoscenza, già vasta, di evoluzioni e di movimenti artistici senza disperdersi in minuziose analisi, giungendo anzi a una sintesi efficace ed effettiva, ancor più riuscita, in quanto genuina e autonoma».

Carlo Barbieri, nel 1970, apprezza la coerenza del pittore che, definisce maestro [6].

«Il pittore Goffredo Godi, come tutti i «petits - Maîtres» che restando fedeli a sé stessi non inseguono le novità sopravvenienti con un ritmo sempre più incalzante, coltiva il suo campicello, la dimensione della sua propria visione, traendone fiori e frutti sempre più pregiati, in una concordanza sempre più intensa e raffinata tra ideazione ed espressione. I valori cromatici ormai sono disciplinati in una più accorta e sorvegliata misura — e anche da ciò Godi trae la sua qualifica di maestro. Dietro queste limpide stesure e lucenti definizioni di piani e di strutture sembra anche di cogliere un rovello (di ricerche, di esperienze, di tentativi propri) di chi vorrebbe superare il traguardo che si è imposto e l'area paesistica e panoramica e di figure che ha ormai diffusamente indagata — e forse siamo alla vigilia di qualche sostanziosa innovazione, ma sempre idonea al suo proprio temperamento e alla sua personale ispirazione. Coerenza e splendore cromatico, definizione sintetica ed equilibrio compositivo sono per ora i doni di questo ancor giovane artista».

Tutti concordano sulla sua onestà di uomo e di artista e ne dà conferma anche Bonifacio Malandrino in una presentazione [7] del 1970.

«Ci siamo sempre interessati alle varie posizioni che hanno assunto gli esponenti della critica napoletana nei confronti dei pittori che operano a Napoli. Abbiamo sentito i pareri di quelli che hanno cattedra sui giornali e ci siamo resi conto che, chi non è addetto ai lavori, poco ci capisce e poco si edifica. Per alcuni sono pittori solo quelli che vanno alla ricerca del nuovo e pur di stare à la page si arrangiano a presentare opere, diciamo cosi, che facciano colpo sugli sprovveduti e contentino i loro difensori. Per altri sono pittori solo quelli che si attengono alla tradizione pittorica napoletana e cioè alla scuola di Posillipo o a quella si ispirano. Secondo i primi sarebbero pittori non provinciali quelli che guardano alla Biennale di Venezia come a un punto di arrivo e di qualifica (quest'anno, dicono, si è voluto offrire una panoramica delle nuove ricerche e sappiamo quello che è stato presentato); mentre sarebbero provinciali gli altri.
Mi vorrei chiedere a quale categoria appartengono quelli che operano a Napoli senza guardare né a Venezia, né a Posillipo. Facciamo il nome di Goffredo Godi. E' un pittore appartato, autentico, figurativo e problematico, modernissimo e saggio. Insegna al Liceo Artistico di Napoli e da trent'anni è impegnato alla ricerca dei valori perenni che la forma e i colori sanno dare a chi ha animo di poeta. Non si domanda se l'arte sia finita, perché è domanda sciocca, perché l'arte non può finire prima dell'uomo. Lavora con accanimento su tele che abbozza, controlla, ravviva, accetta o distrugge. Gli nascono paesi e paesaggi con accenti di colori ora caldi e festosi, ora grigi e malinconici Figure attente, scavate nella loro psicologia e riportate in luce con tocchi scattanti e rapidi. La pennellata nervosa e decisa raccoglie emblemi dalle pietre, dalle foglie, dalle ruote (simbolo della nostra civiltà tecnologica che lui non subisce, ma trasvaluta in atmosfera di poesia: per questo non sarà l'arte o la poesia a finire; semmai saranno pochi a capirla) e li investe di messaggi nuovi, fuori della storia, delle contingenze che interessano e opprimono gli uomini non liberi. Non si lascia scoraggiare dal silenzio che lo circonda e dagli osanna a pittori meno dotati: perché guardare alla Biennale, se non è una cosa seria? Perché prendersela con i critici che hanno un gran daffare per stare anche loro à la page? Un pittore-pittore come Godi sa di lavorare con onestà, con sincerità, con animo di poeta e di galantuomo (una nota che non disdegno mai negli artisti), guarda all'antico e sente modernamente, annovera buoni ammiratori e collezionisti: che può desiderare di più? Il grande nome? E chi ha detto che i grandi nomi appartengono necessariamente a grandi artisti? E' provinciale, perché a Milano non sì parla di lui? Perché non possono essere provinciali anche quelli che operano a Milano? Non possono cioè essere pittori dialettali? Ma ai fini della realizzazione artistica, che valore ha? Lasciamo disquisire (forse a tempo perso) i vari critici à la page: a noi interessa aver additato un pittore che si contenta di lavorare in pace e di offrire testimonianze valide (per chi è in grado di capirle) d' arte, e basta».

Piero Girace [8] ammira la sua autenticità e il suo essere spregiudicato e coraggioso nella sua pittura.

«Uomo timido e schivo, profondamente buono. Un pittore autentico, che non appartiene alla categoria di «intrallazzatori» ed esibizionisti: un artista che se ne sta in disparte, e trascorre il suo tempo libero nella solitudine dello studio, tutto dedito al lavoro.

Eppure, nella sua pittura si rivela spregiudicato e coraggioso oltre ogni dire, sia quando affronta il paesaggio (e ne ha di belli, realizzati con pennellate larghe e riassuntive, senza intrugli più o meno elaborati d'impasti, ma con purezza di colori, dai verdi ai viola, dai blu ai grigi), sia quando trasfigura i suoi «modelli» (particolarmente le donne) inserendoli con vivo sentimento della forma in serrate composizioni, ove magari si avvertono gli echi di un cubismo addomesticato. Certi suoi paesaggi farebbero pensare ad una natura vergine splendente di verdi acerbi o carica di viola autunnali o di sfolgoranti blu.

[…] I pittori come Goffredo Godi, modesti e silenziosi, di sicuro talento, che vivono appartati e che non svolgono un'azione pratica per la propria notorietà, fanno parte di una ristrettissima categoria di artisti, su cui dovrebbe maggiormente puntare l'attenzione della critica e degli amatori d'arte.

Ma, purtroppo, in questa giungla dell'arte contemporanea, i pittori seri, che non fanno parlare di sé con atteggiamenti più o meno istrionici, sono destinati a pagare lo scotto dell'incomprensione.

Goffredo Godi è uno di questi».

Che Godi sia stato sempre un pittore amante della sua libertà, di una libertà che alla distanza rende, è ben noto. E’ opportuno in proposito riprendere quanto afferma Ciro Ruju [9] in una presentazione dell’artista del 1976.

«Non a caso nel libro «storia dell'avanguardia napoletana» ho posto l'attività di Goffredo Godi nel settore degli artisti liberi, i quali, intorno agli anni cinquanta, hanno avuto un ruolo non indifferente per lo snodarsi dell'arte moderna qui a Napoli. Una funzione che per molti - con il senno del poi - è stata vista non certamente di buon occhio e anzi spesse volte è stata considerata, senza una analisi appropriata e quindi priva di qualsivoglia valore critico-storico, come non esistente.

Una realtà invece questo settore è da considerarsi. E Godi è uno degli esponenti più validi che viene a distinguersi da questo foltissimo gruppo tramite una sua particolare fisionomia determinata appunto dall'assoluta indipendenza del suo fare pittura. L'aspetto sociologico di questo settore degli artisti liberi è dato proprio dal fatto che esso abbraccia una schiera non indifferente di artisti che, intorno agli anni cinquanta qui a Napoli, ma anche potremmo dire nel resto della nazione, escludendo quei pochi dichiaratisi - a parole o di fatto - esponenti di filoni vari: neorealismo, astratto concreto ecc., caratterizzano un periodo ben specifico: basterebbe - per rendersene conto - leggere la pubblicistica dell'epoca e verificarne la veridicità.

Quindi se, agli inizi del 1950, abbiamo una partecipazione all'avanguardia, e questo senza dubbio è da porre in primo piano, dato che è soprattutto per quegli avvenimenti che Napoli riuscirà a trovare un suo spazio nazionale, non possiamo e non dobbiamo dimenticare quegli artisti che, se pur dedicandosi ancora (1950 ed oltre) ad una sorta di naturalismo, sono riusciti, non solo ad offrire dei suggestivi aspetti, ma anche ad ottenere consensi in concorsi di un certo livello; e alcuni, superando (il grado dell'informazione ha il suo peso) gli spunti dei cosidetti maestri, riusciranno a trovare una loro validità anche sul piano dell'avanguardia. Ovviamente fra questi artisti, numerosissimi, parleremo di quelli che hanno svolto un'attività e sono comparsi con buon successo in mostre a carattere nazionale e che non si sono fermati su vecchie posizioni, avvertendo nel loro iter il dubbio che li ha spinti verso nuove strade.

A questo punto nel mio libro parlavo dell'opera di Goffredo Godi che, formatosi alla scuola di Notte, pone la sua indagine tutta sulla natura, indicando con essa un suo stato idillico che va perpetuandosi in un perfezionismo di resa, attraverso una colorazione che, basandosi soprattutto sui toni freddi, riesce a cogliere gli effetti più immediati della natura. Una simile indagine, pur relegando il Godi in un settore rigorosamente soggettivo, lo ha posto in evidenza qui a Napoli per le qualità meramente pittoriche dei suoi dipinti: un tonalismo paesaggistico che, se pur mirante in vario tempo (in dipendenza del clima avanguardistico: verismo, post-cubismo e informale) alla resa della struttura che fosse diversa da quella data dalla natura, mantiene di quella le caratteristiche più evidenti.

Questa sintetica, e senza dubbio riduttiva indagine, che nel 1970 avevo attuato sull'opera di Goffredo Godi mi trova ancora concorde in quanto avendo esaminato, per questo intervento, tutto l'arco operativo dell'autore attraverso opere che tutto sommato segnano date inequivocabili, ho da riconfermare ancora una volta che il dato emergente, come nota distintiva e quindi stilistica, è l'amore per la natura che, rielaborata nel contesto della tela, diviene nota costante per un discorso più aperto su delle precipue possibilità espressive insite al concetto di naturale. Questo discorso sin dal lontano cinquantatre viene ad emergere totalmente in opere, soprattutto i paesaggi, dove la lezione degli impressionisti, soprattutto Cézanne, è mediata da Godi per una espressione più libera che gli apre, in certo qual senso, il percorso al suo sentire e che lo distanzia da esperimenti cubo-neorealisti come erano venuti ad emergere dalle opere «La famiglia del pescatore», o dal «Contadino che mangia il pane» per evidenziare con maggiore vena inventiva il paesaggio naturale, costruito soprattutto con il dolore che è forma dello stesso rappresentato.

[…] L'interessante nella ricerca di Godi, a differenza di altri pittori del momento costretti all'isolamento e quindi all'abbandono del fare pittorico, è dato proprio dal fatto che l'essere isolato, con tutte quelle caratteristiche che comporta l'isolamento, viene ad emergere totalmente dalle trame pittoriche e si offre quale componente contenutistica di un fare, estrinsecato, meditato da una fantasia ampiamente invogliata dalla natura circostante. E su queste basi i vari tentativi di allargamento della trama pittorica, parliamo appunto del periodo informale, hanno trovato un freno proprio per le qualità più intime della fantasia che ha sempre trovato una sua identità nel rapporto diretto con il dato naturale. Questo rapporto dialettico con il paesaggio, intriso di umori mediterranei quasi a dimostrazione della sua particolare ed efficace esistenza, viene ad offrirsi in questo periodo - dopo l'iniziale sbandamento dell'esilio forzato - il trasferimento dell'artista dall'ambiente napoletano a quello romano, in un'ampia gamma espressiva dove l'allargamento della trama in una più ampia stesura materico-coloristica accentua la portata significante del processo pittorico in quei rapporti appunto di nuovo valore che il paesaggio assume. Un paesaggio colto nelle sue strutture essenziali e non certamente riduttive di una espressività estranea al dato significante della struttura stessa. Un discorso quindi aperto questo di Godi sulle nuove e forse più autentiche possibilità significanti del dato naturale».

Godi è stato posto tra due possibilità dell’immaginario estetico: l’astrazione geometrica e la lettura realistica; ma non è mai caduto nel tranello di questi due eccessi.

Proprio di questo raro equilibrio, ne dà conferma Elio Mercuri in un saggio[10] scritto nel 1977.

«La ricerca di Goffredo Godi si muove con raro equilibrio tra l'adesione poeticamente vissuta alla realtà, intesa come delicati paesaggi e lo stacco da quelle che sono le forme naturali per musicale impulso che scandisce secondo un interno ritmo i colori ormai autonoma e spirituale materia. Conserva nei suoi quadri l'espressività attraverso la quale le cose, un albero, i campi aperti su orizzonti luminosi, raggiungono una loro sostanziale presenza, e il riflesso nella memoria e nella accesa sensibilità, per il quale divengono intensa esperienza, rinvio ad un'altra dimensione segno di una nostra ricerca di verità, nell'equilibrio con la natura fino a trasformarsi in composizione che ricostruisce le sensazioni vissute in nostra, intensa struggente visione. È questa tendenza verso un superiore punto di contatto, e una più profonda nozione delle cose che ha consentito di placare l'implicita e insistente gestualità della stagione informale in un non astratto superamento formale, ma nella continuità tra i territori dell'anima, i percorsi inconsci le zone remote della psiche e della mente e gli spazi del mondo in questo sforzo di connessione attraverso il quale matura un più alto e distaccato punto di vista, un'idea che si configura in musicale realtà. Istinto legato alla sua solare natura di uomo del Sud e contemplazione trovano nella ricerca di Godi una loro armonia prova di un nostro poter essere felici in accordo con la natura; immaginazione e percezione si saldano in questa luce che filtra dagli spessori di un impasto pittorico di rara intensità e di estremo equilibrio».

Alcuni critici gli hanno spesso attribuito una discreta sperimentazione astratta nella metà degli anni settanta, giudizio inesatto, perché se prendiamo in esame la produzione artistica del maestro, possiamo notare come figurativo e astratto coesistono fin dalle prime esperienze.

Renato Civello, nel 1978, commenta così la sua arte[11]: «L'allusività degli archetipi figurativi sostiene e riconnette le eleganti modernissime «fughe» di GOFFREDO GODI. Il flusso memoriale è sopraffatto, a prima vista, da un gioco alterno di convergenze e di elusioni di ritmi meramente strutturali, condotti alla soglia dell'arabesco, e di luminose espansioni ottiche. Ma Godi conosce il senso della propria partecipazione e del filtraggio operato attraverso le sollecitazioni eclettiche dell'informale: c'è un vitalismo esaltante, c'è un'intima forza in Questi dipinti, che ripropongono con personale incidenza, nel respiro ciclico - ovalizzante dell'immagine, la più alta eredità matissiana. L'artista è in linea con gli esiti di un temperamento che è indotto ad umanizzare l'invenzione, riconvogliando il colore, per sottili accordi, ad una funzione evocatrice; parallelamente, senza dubbio, alla sapienza di questo effetto musivo, che ritrova oltre il festoso contrappunto delle tarsie una lucida consistenza di verità».

Mentre Mario D’Onofrio in una presentazione[12], nel 1978, scrive: «Le figure sono astratte dai loro nessi consueti così da convertirsi in complesse ed incantate apparizioni.

Qui pittura vuol dire trascrizione di interiori immagini e di visioni mnemoniche all'interno di una rigida struttura che si spiega su piani diversi, reagenti gli uni su gli altri, in ricercati incastri geometrici. Il colore asseconda per toni liberi e tenui gli accostamenti formali in una felice sintesi visiva».

Sergio Rossi riconosce l’eccezionale maestria del pittore nel saldare figurativo e astratto; a tal riguardo scrive[13]: «Fin dalle prime esperienze hanno coesistito nella pittura di Goffredo Godi due anime: quella figurativa, «ufficiale» ; e quella astratta che l'artista riservava a delle ricerche tutte private. Di recente egli ha sentito la necessità di saldare queste due componenti in un discorso unitario che prende le mosse dalla grande lezione del futurismo italiano da Godi ben meditata e assimilata. Ciò che più interessa l'artista è ora la resa simultanea dei movimenti e delle azioni della folla, che acquistano una propria dimensione spazio-temporale tutta interna alle tele e diversa da quella della vita quotidiana. E spesso gli accenni appena schizzati a figure e corpi umani (tracciati con la rapida maestria del vero disegnatore) divengono pretesti per giochi di linee e di colori che acquistano una propria libera musicalità; mentre a volte l'artista usa il procedimento inverso, di ricostruire cioè sembianze di tratti e di volti partendo da disegni del tutto astratti.

Comunque è proprio là dove la inventiva si fa più accesa e il dato naturalistico è pienamente superato nella metamorfosi del segno che le tele di Godi, grazie agli equilibri cromatici sempre freschi e cangianti usati dall'autore, raggiungono i loro risultati più compiuti».

Del suo rapporto amorevole ed equilibrato con la natura e con gli individui, ce ne parla Carlo Franza in un articolo mai pubblicato[14], scritto nel 1981.

«La pittura di Goffredo Godi, napoletano ma romano d'adozione, offre lo spaccato di un'arte visivamente mediterranea.

Questa pittura, solare e pastosamente etnica si esprime con un segno intensamente lirico, così che la visione originale si costruisce su più dimensioni. A questo punto non so se le coincidenze e le incidenze di scuole e di gruppi, lo possano nettamente inserire a Napoli o a Roma: la scuola napoletana si può richiamare per la sintesi cromatica, espressione d'una sua istintualità coloristica mutuata da Palizzi e da Gigante; ma anche la scuola romana degli anni cinquanta, quella frangia vicina a Domenico Purificato, è da ricordare nella lettura.

Ci sono dipinti ispirati al mare, e poi una serie di spiaggie con il fascino costruttivo dei bagnanti in conversazione, e infine dei paesaggi. Frutto di una tecnica raffinatissima e di un'alta coscienza artigianale, la pittura di Godi si nutre di un complesso di interessi sociali il cui centro, come nella migliore tradizione umanistica, é l'uomo.

Godi stabilisce un rapporto amorevole ed equilibrato con la natura e con gli individui, e ne fa nascere una pittura che trova il suo legame con la tradizione, con le radici di una cultura, nel suo realismo così immediato e accattivante, le ragioni della sua opposizione al mito dell'uomo dissociato.

Ma il suo operare, la sua intera ricerca dal vero è anche inserita nei punti più vivi del dibattito europeo contemporaneo, in questo clima di neoromanticismo, in una operazione di chiarificazione e di superamento degli stalli in cui il cammino delle nuove tendenze si è venuto imbattendo.

La poetica di Goffredo Godi è cresciuta così, squisita ed esuberante, fantasiosa e ricca, plastica e reale; intrisa di una coerenza e sorretta da una personalità e una cultura profondamente consapevole delle cose umane».

Gino Grassi, nel 1983, in un articolo[15] pubblicato sul Supplemento di “Napoli Oggi”, segnalando i dipinti del maestro esposti alla mostra personale all’Istituto Pontano, annota: «Veramente bella l'opera di Goffredo Godi. Allievo tra i più interessanti e più lirici di Notte, Godi mostrò, durante la lunga permanenza a Napoli, di aver assimilato in maniera mirabile il modulo post-futurista e cubisteggiante dell'indimenticato maestro veneziano-napoletano. Poi Godi si trasferì a Roma, dove ha continuato una carriera che gli ha dato grandi soddisfazioni e che gli ha permesso di vivere in maniera diversa la sua esistenza di artista, anche per la presenza nella Capitale di parecchi grandi pittori e perché a Roma le manifestazioni artistiche di grande importanza si ripetono con grande frequenza.

Godi, che non aveva mai sacrificato l'immagine per una pittura analitica, appare in piena forma. Il pittore presenta paesaggi e marine di tale ricchezza tonale (con predominio dei verdi e degli azzurri) e di tale stringatezza figurale da apparire nel momento più felice della sua lunga carriera. Ma il fatto più significativo è che Godi non sente alcuna esigenza di complicazioni postavanguardistiche e semplifica al massimo il proprio discorso, badando soltanto all'essenzialità dell'immagine, alla sincerità del rapporto con la natura e a modificare in senso lirico i termini della realtà.

Anche se i paesaggi e le marine sono laziali, situati tra la Casilina e il mare di Ostia, ci si accorge immediatamente che la memoria, che agisce da grande elemento di raccordo, ripropone ricordi di un deja vu tutto napoletano. È la Napoli dei Campi Flegrei e delle spiagge assolate di Licola e di Lago Patria che finisce per emergere da sotto la montagna degli eventi stratificati successivamente. Il pittore se ne compiace, perché il ricordare è un po' rivivere vecchie e sopite emozioni come quelle delle innumerevoli giornate passate accanto ad Emilio Notte, un tantino istrione ma autentico grande pittore e didatta che costruì, per gli artisti napoletani giovani, il più importante trampolino di lancio».

Dario Micacchi, in un corposo saggio[16] del 1983, mette in evidenza non solo le doti culturali del pittore, ma sottolinea anche come nella sua arte si armonizzano trasparenza e incandescenza. «[…] Goffredo Godi ha vissuto e lavorato molti anni a Napoli; da alcuni anni vive e dipinge a Roma ma con sistematici e liberatori soggiorni estivi al mare di Calabria. L'ho incontrato da sempre alle mostre, riservato, sorridente, dolcissimo; sapevo vagamente che faceva il pittore: lui mai che dicesse di sé una parola, che chiedesse qualcosa. Certo è che delle vicende della pittura sapeva tutto ma nell'ambiente artistico ci stava e lo attraversava con un suo enigma, con un suo segreto. Poi, un giorno, per interessamento dell'amico comune Bruno Canova, c'è stato l'incontro a studio e la sorpresa grande, la rivelazione di un pittore diverso dagli altri, solare, mediterraneo, dotato di un'impressionante naturalezza e di uno stile costruttivo «en plein air» non impressionistico ma fortemente strutturato, cèzanniano, con dei colori trapassati di luce che sembrano coagulare rapidamente da una colata dell'immaginazione: insomma, un rapporto esaltante con la natura che è un ritrovamento di una certa idea serena e luminosa del mondo che Goffredo Godi si porta dentro.

[…] Una volta vista la pittura di Goffredo Godi si intende così la sua riservatezza come il suo enigma. Goffredo Godi intende il rapporto con la natura e con la particolare natura mediterranea nella luce terribile dell'estate piena come un rapporto molto puro, e che da niente deve essere inquinato.

Egli ha un metodo severo ed esatto, tutto suo, per portare lo sguardo alla massima ricettività e trasparenza contemporaneamente alla massima incandescente di quella immaginazione di un mondo sereno, diamante di luce, che si porta dentro. È una tensione dell'energia che non è facile da raggiungere e che se non c'è non si verifica lo «stato di grazia» nel rapporto con la natura.

Si potrebbe dire che Goffredo Godi viva in attesa dei mesi folgoranti dell'estate. Dipinge dal vero sul motivo cosmico, paesistico, ambientale; ma si è caricato per mesi e mesi e con tutto quello che ha visto e sentito. Quando il sole è allo zenith dà le sue risposte con una «scrittura» di colore rapida e infallibile nel tono e nel valore di luce.

I luoghi sono assieme naturali e mentali: le pendici vesuviane e le apparizioni del mare nel giro d'un piccolo golfo o tra le piante della costa calabrese. Il sole fuori ma anche il sole che «ditta» dentro. La struttura fuori e la struttura dentro. La luce al massimo: il soggetto al minimo. Le ombre sono anch'esse colore-luce con una qualità strutturale. La volumetria del motivo paesistico, con o senza figure, è assai spiccata e aggetta da grandi masse tonali come da colate rapprese sulle quali ha vitalistica evidenza materica la velocità della mano che accenna ad alberi, arbusti, rocce emergenti o oggetti della presenza umana sempre molto immersa.

S'è accennato agli anni napoletani di Goffredo Godi ed è possibile che abbia raccolto e portato avanti qualcosa del vitalismo erotico, furioso e liberatorio di Crisconio e anche qualcosa del cèzannismo popolano, così carico di umori locali e internazionali, di Notte. Ci sono con le date a posto dipinti di Goffredo Godi neocubisti, neorealisti, neonaturalisti nel «clima» di «Ultimo naturalismo» versione napoletana. Ma ecco che ritorna in scena il carattere schivo e riservato dell'uomo; e così ufficialmente quasi non c'è traccia di dipinti che pure per la qualità sarebbero di primaria importanza.

Ma torniamo al dialogo col sole e con l'estate mediterranea. Goffredo Godi ha con la struttura del paesaggio meridionale e mediterraneo un rapporto ossessivo ma gioioso, del tipo moderno che Paul Cèzanne ebbe con la montagna «Sainte-Victoire» dipinta e ridipinta per cercare di fissarne la struttura volumetrica con «taches» di colore-luce.

L'ambizione costruttiva e lo stile costruttivo dell'immagine di natura, per forza di colore-luce, fanno la modernità di Goffredo Godi e la naturalezza rara e assoluta della sua autenticità. Certo ci sono affinità e riferimenti: c'è il De Staël del viaggio in Sicilia; c'è il Melli del sole a piombo sulle terrazze e sul sonno della moglie nelle stanze romane; c'è il Pirandello della terra arsa e delle spiagge con i bagnanti come un esodo; c'è Morlotti con lo spessore della terra e le forre e i campi di granoturco e le viti di Lombardia.

Ma non è soltanto il motivo del paesaggio meridionale che Goffredo Godi identifica col suo mondo, ma qualunque cosa dipinge assume quel carattere di ritrovamento di un'identità, eterno e assoluto: basta saper vedere quel piccolo dipinto con le carcasse di auto cose buttate via ma che la luce riscatta quasi fossero ossa: Goffredo Godi le ha dipinte come un altro pittore in altri tempi dipingeva un cranio o un bucranio.

Queste carcasse d'auto in piena luce sono uno scandaglio sicuro dello spazio ma anche uno scandaglio della coscienza. Non diversamente, credo, sono trattate le figure sulla spiaggia e sul mare: strutture, scandagli di un dominio e di una serena occupazione e tenuta umana dello spazio terrestre: l'occasione è quotidiana e feriale ma il rito è fondante e mitografico. Senza illustrazione, senza racconto, i dipinti di Goffredo Godi quasi non si possono titolare ed è anche difficile dire se quella luce lì, rimandata dalla chiarità verde azzurra del mare, sia la luce del 1975 o la luce del 1982 a una certa ora di un certo giorno. Segno che si distende sul tempo lungo questa ricerca della luce del mondo cui corrisponda la luce interiore dell'immaginazione umana. Goffredo Godi punta sempre a un'unità di visione.

Al di là dei giorni e delle ore punta a un carattere sintetico dell'immagine, pure nella gran varietà degli elementi naturali. Anche i colori, di gran varietà e ricchezza, sono ricondotti a un'armonia generale di contrasti e di accordi musicali. Come faccia Goffredo Godi a tenere inalterata questa gran luce che fa la trasparenza del mondo è il suo enigma di lirico puro e intransigente, in un tempo in cui calano grandi e paurose ombre e il mondo è tornato a farsi maledettamente opaco».

Luce al massimo, soggetto al minimo, vitalismo erotico crisconiano, cèzannismo di memoria: questo e altro in un lirico puro. Il testo[17] che riportiamo di seguito è sempre di Dario Micacchi, scritto nel 1985.

«C'è un piccolo dipinto di Mario Mafai, sul finire degli anni venti, che raffigura il lungotevere di Ripetta, case e alberi, proprio nel tratto dopo l'Ara Pacis, ed è lo stesso punto di vista scelto da Goffredo Godi che ha preferito, però, inseguire la straordinaria avventura della luce romana sulla massa delle foglie nuove di maggio dei platani che subito curvano, quasi fossero braccia, verso l'umidità del Tevere. Il piccolo dipinto di Mafai è nitido, scolpito nelle forme «alla maniera di Derain» — Mafai era fresco del viaggio a Parigi — ma la luce dolcissima che riverbera dal rosso e dall'ocra dei muri è già «romana», mafaiana. In quegli anni c'era ancora un mito e un culto di Roma con la luce sua. Oggi, un lirico puro come Goffredo Godi, che gioisce e si abbuia secondo il capriccio del sole vedendo continuamente minacciata quella struttura di luce mentale/cosmica alla quale vuol dare concretezza dipingendo dal vero, dipinge Roma senza più mito e culto di Roma. Col cavalletto lambito dal flusso delle automobili, il gran casino della gente che va e viene; e, poi, c'è il vento di questa stagione matta 1984 che spinge la tela come vela di barca. Eppure è un anno e più che Goffredo Godi pensa alla luce di Roma e a un ciclo di dipinti su Roma. È stato in Calabria, come fa ogni anno, felice quando il sole è allo zenith, ha dipinto spiagge e mare, dossi e colline folte di sterpi, campeggi e figure di bagnanti; ma il pensiero di Roma non l'ha mollato mai.

La scelta imperiosa di dipingere in piena luce solare è tremenda per un pittore e ancor più tremenda è la volontà di esaltare l'invisibile struttura della natura in piena luce meridiana. La pittura moderna, a cominciare da Van Gogh e da Cézanne, ha combattuto e vinto delle grandi battaglie nel sole per l'evidenza vitale della materia degli uomini e delle cose. La figura di Van Gogh che va a dipingere sotto il sole, con la cassetta dei colori a spalla, è stata dipinta da Francis Bacon come quella di un eroe moderno (somiglia nella volontà terribile al gran seminatore dipinto da Van Gogh).

Goffredo Godi è sereno, positivo, costruttivo, strutturale, ama il sole come i ragazzi amano la spiaggia d'estate; ma per dipingere Roma, oggi, ci vuole una volontà terribile, modernissima e un po' antica.

[…] Ve lo immaginate voi un uomo, un pittore che nell'anno 1983 e 1984, con tutti gli assassini, la violenza, l'orrore, il vomito, la nausea, si parte la mattina coi suoi strumenti e cerca Roma come si cerca un volto e un corpo molto amato e desiderato, e per dire a tutti che nonostante tutto è ancora bello e da gioia e voglia di vivere e di costruire per quella armonia che in tanti secoli tante immaginazioni creatrici hanno messo assieme con piante e case, con strade e piazze, col fiume e con gli alberi. Sì, questo pittore che se ne va a dipingere Roma tutti i giorni, per mesi, deve proprio avere una volontà un po' vangoghiana. Dire che tra il pittore e il colore verde — tutti i possibili verdi non della chimica ma dell'immaginazione — ci sia un rapporto speciale è dir poco: è soprattutto con i toni del verde che cattura la luce e la rimanda nello spazio per fare l'immagine calma, serena, molto strutturata. Il groviglio delle foglie dei platani in prospettiva aerea è dipinto con una sicurezza assoluta di occhio e di mano, ma sottintende una confidenza lunga e molto amorosa con lo spazio e le cose romane. Perché Goffredo Godi è posseduto da una vera e propria ossessione lirica del verde e lo ha dipinto in infinite varianti sulla costa tirrenica meridionale; ma questo suo verde dei paesaggi romani, pure così aspro, così selva, così antigiardino, è un verde molto romano per la luce e per le tonalità che riverbano gli altri colori attorno.

Certo, la natura meridionale del suo sguardo è insopprimibile (è un filo resistente che va da De Gregorio a Crisconio e a Notte), ma l'architettura/natura di Roma lo ha costretto a un'amorevole sfida, a un cimento pittorico tra armonia e invenzione che muove dall'umiltà dello sguardo e arriva alla costruzione orgogliosa. La grande veduta dal Pincio, con il lago di luce della piazza del Popolo e l'infinito variare tonale della città fino all'orizzonte penetrato al limite delle possibilità visive, è una piccola, straordinaria vittoria pittorica sul sole di Roma. Tale vittoria sul sole ritoma in certi bellissimi fiori e piccoli, antichi ponti sul Tevere toccati con una strabiliante giustezza di tono/materia. Ma, si potrebbe dire, sono dei paesaggi fortunati, «miracolati». Ebbene, no, sono la creazione consapevole di una tenacia e di una volontà cézanniane.

Provate a confrontare i paesaggi romani con due bellissimi paesaggi calabresi dominati, uno in verticale e l'altro in orizzontale, da una possente siepe di fichi d'India che con le pale articolate in tutte le direzioni fa una struttura assai complessa e splendida. Ecco, ancora il verde, un altro verde e dei volumi che tagliano lo spazio come coltelli. Ebbene, volumi e spazi nella luce zenithale hanno una concatenazione serrata come nei paesaggi romani, soltanto che qui la costruzione è organica, selvaggia, spontanea; mentre nelle vedute di Roma l'occhio ha sempre la sfida del molto costruito e organizzato secondo un progetto urbanistico/architettonico che ingloba la natura.

È vero che la natura di Goffredo Godi giganteggia nelle vedute romane; ma si piega anche, si fa docile (la bellissima curva dei rami verso le acque del Tevere e l'articolazione mirabile tra piante e masse di travertino della piazza del Popolo). Goffredo Godi è un pittore curioso, non si contenta della Roma del gran teatro romano antico/barocco; ma cerca certi luoghi della periferia dove l'antico sta con il nuovo magari orrido nuovo. Qui viene fuori un altro pittore di colore assai caldo, quasi patetico, che sul bagliore di un frammento di acquedotto romano inserisce lo squillo rosso di un'automobile e riesce così a rendere quel senso di corpo infranto, devastato, corrotto che ha la grande periferia romana, città nella città. Io credo che queste vedute di Roma siano soltanto le prime di un ciclo che ha bisogno del tempo lungo per realizzarsi e della collaborazione del sole che non muti ogni giorno e ogni ora la situazione di forme e spazi.

Goffredo Godi pensa che il sole sia non soltanto il rivelatore della bellezza delle cose ma anche il dispensatore, attraverso l'occhio e la mano del pittore, di quella gioia che sempre misteriosamente emana da quel che è costruito col senso della bellezza, della grazia, dell'armonia, per non essere consumato subito ma per durare e lasciare semi nel cuore e nell'immaginazione degli uomini. Aver ritrovato Roma è già qualcosa, anzi è molto».

La concretezza e la fantasia dell’artista sono ammirate da Italo Marucci[18], che in una presentazione dell’artista del 1987 così affronta la lettura dell’opera del pittore: «L'essenza dell'arte di Goffredo Godi è nella concretezza delle sue immagini, costruite con un segno robusto che suggerisce la solida consistenza delle cose e ne coglie con sintesi immediata le forme. La realtà è tradotta nell'immagine come costruzione di volumi che occupano uno spazio e trovano nell'armonia tra forme e atmosfera la loro ragione d'essere. Il concretare nella figurazione il dato di natura con essenziale verità libera il racconto di quanto è prosasticamente contingente per trasferirlo nel senso della fantasia. Ma si può agire sull'oggettività in tal senso solo quando essa è posseduta in ogni suo più segreto aspetto; diviene materiale plasmabile e può trasformarsi in immagini, cioè figurazione fantastica di una realtà tutta nuova e completamente dipinta dal vero.

Da questo preciso rapporto col vero nasce il realismo di Goffredo Godi, un realismo che non diventa un racconto fine a se stesso, ma costruisce con estremo vigore immagini che sono l'equivalente del suo modo di sentire la vita e, al tempo stesso, forme del reale trasferite nella nuova dimensione della poesia. In questo suo modo di dipingere dal vero sul luogo, si può trovare una armonica sintesi di soggetto e oggetto, che dà vita ad un vero, del tutto inedito, in cui indissolubilmente si saldano la realtà oggettiva e il sentimento dell'autore.

Godi cerca di realizzare delle opere sul filo dell'ovvietà quotidiana fino al limite del sentire espressivo. Il vivace desiderio di fare (arte dal vero), il recupero e la riproposta dei sentimenti, dunque; il bisogno di credere in una nuova verginità dell'arte: ecco quello che stimola il suo lavoro; la sua ricerca autentica, l'ansia ostinata e naturale per giungere a dare agli altri un segno del suo lavoro, un poco della sua vita. La vicenda artistica di Goffredo Godi seguì, dopo il '50, uno svolgimento analogo a quello di molti fra gli esponenti della sua generazione: all'inizio una revisione di valori acquisiti da una parte, e delle proposte della cultura europea dall'altra; e quindi la progressiva definizione di un proprio stile, una crescita continua, per Godi, quasi logica nella sua coerenza. Ancora oggi è dato riconoscere, al fondo di certe tensioni coloristiche, dietro alcune abbreviazioni formali, soprattutto nell'aria "astratto-futurista cubista-realista" dei suoi dipinti, una origine che si chiama Emilio Notte.

Spirito calmo, ricercatore ricco di umori, capace di incredibili abbandoni, Goffredo Godi è pittore dal disegno robusto e di getto. Maturatosi nell'ambiente artistico napoletano, egli ha seguito la sua strada solitaria, ben definita e coerente, rinunciando ai facili e rapidi amori. Alla radice c'è indubbiamente un amore naturalista, che egli ha perseguito e persegue nei suoi paesaggi, cosi come nelle sue nature morte».

Godi ama la verità del sole, la luce che non conosce prigioni, che svela e rivela, come annota Angelo Calabrese in una presentazione[19]dell’artista del 1988.

«Di Goffredo Godi, ovunque e ogni qual volta il discorso cada su di lui, uomo e pittore, prima ancora della sua tavolozza e delle opere che mi restano impresse nella memoria, rievoco il mesto sorriso e quella bontà dignitosa che è già di per sé argomento umano e dimensione sociale.

[…] è proprio l'umiltà che caratterizza Goffredo e lo rivela grande e coerente al punto che tutti concordano sulla validità delle sue proposte, sulla competenza, sul mestiere che i Maestri che hanno guidato la sua generazione già riconoscevano e valutavano positivamente, dando rilievo allo spessore del disegnatore e del colorista: le doti che caratterizzano un vero pittore. Godi è ricettivo, lirico, dignitoso, pacato in apparenza, ma intanto preso da un costante tumulto di visioni, pieno di sensazioni di luci aperte e di spazi aspri e dolci, di fuochi celati nel ventre di un vulcano e di verdi che dal fuoco esplodono gonfi di linfa, succosi di frutti. Essi sono radicati per migliaia di toni lungo pendici ampie, sulle quali lo sguardo indugia ripercorrendo incessantemente e sempre con affascinato desiderio, un panorama che ha per volta un cielo impareggiabile e dal Vesuvio corre al mare ed al respiro di un golfo esperto delle pagine più solenni della storia nazionale. La condizione degli uomini, la cronaca del dolore quotidiano, sono, in queste terre, delle stimmate che non guariscono: addirittura degenerano nel tempo e possono portare ad effetti disastrasi.

Se però la natura è provvida di intelligenza e di forte sentire, spunta rigoglioso il pensatore, il politico, il poeta, l'artista e con la tenacia della ginestra che ispirò Leopardi nel monito di un ruolo sociale, ecco che il sapore vesuviano si palesa dall'amalgama di tante civiltà e tanti umori che l'arricchiscono e, umile in tanta gloria, nasce un Goffredo Godi.

Forte e autentico artista ha sulle labbra il sorriso che giustifica le umane vicende, le interpreta sullo sfondo della natura ineffabile e, sotto il sole, annota brani di fatti umani, spazi dove le storie sbucano nella storia, dove vicende secolari si aggiungono ai grandi delusi di un rosario recente e l'uomo e l'artista, ad unguem perfettamente coincidenti, cantano l'armonia, la gloria solare, il disordine dissennato. E la denuncia non è mai fine a se stessa: nasce come monito di libertà e di democrazia. Ecco il pittore impegnato. Goffredo Godi è un istintivo: ha macerato i suoi verdi illuminati nell'orizzonte dei suoi sentimenti: è l'uomo di buona volontà che accetta il dolore e affronta la vita, è esperto di vizi e di virtù e sa comprendere e giustificare, ma non saprebbe vivere senza potersi esprimere in libertà. Godi è il pittore della libertà, ecco perché ama la luce e la vive ad occhi aperti. Il suo sogno è la vita reale, libera, vissuta in dignità di sensi e sentimenti, con serietà, come contributo e testimonianza sociale, come certezza di essere vivi nel moto, nei ritmi delle stagioni, nel corso delle stelle. E perciò non potrebbe mai essere allettato da una visione ludica o dall'effimero. C'è sangue e sudore nella fatica umana, la libertà costa troppo e non va sprecata. Ecco come si possono leggere con una chiave interpretativa semplice ed essenziale le sue possenti allusioni all'eroismo partigiano, alla sacralità dell'esempio di chi combatte per la libertà, primo baluardo per ogni umana conquista.

[…] Perché abbiano parlato della libertà prima di ogni altra cosa? Perché la poesia di Godi è tutta pervasa del colore della pace. Anche quando si conforta nel colloquio con la natura e resta a parlare, intimo, con un brano della sua terra o con uno spazio che gli ha carpito l'occhio e l'attenzione insieme con il sentimento. Godi ride alla luce che non conosce prigioni. In piena luce guarda le cose esprimersi attraverso i colori suscitati e li canta allo scoperto, quando non ci sono ombre, quando la purezza abbacinata vive sotto l'apice della luce, quando tutto si rinnova nella forma e il libero fulgore grida il suo mistero. Solo il Sud sa vivere in pieno sole. E ogni Sud che grida la sua delusione si ritrova nell'abbaglio di Godi, nelle sue nature morte, nei fiori giganti solitari che esprimono tutta la loro bellezza, nei panorami che sembrano noti e sono invece tutti interiori, riscoperti attraverso la paziente e sapiente lezione di un pittore che ha tenuto e tiene aperti, gli occhi in piena luce, mentre la pigrizia o l'accidia preferiscono l'ombra.

[…] In Godi parla il colore ed è impulsivo, ribelle incontenibile: inventa le forme, raggiunge intensità incredibili, proprio quando fa apparire le cose, quando le fa fremere, svelandole in rapidissime percezioni che si illuminano progressivamente in libertà. Cioè nella forza di un disegno che non è più visibile se non nella globalità dell'evento che è percepibile nel suo segreto solo nell'ordine della luce che rompe e ricompone ogni equilibrio. La luce regola i rapporti spaziali e la realtà è inventata nella luce, nel caldo senso di una dimensione vitale che è albero e cespuglio, salice e olmo, riconoscibili però per atteggiamento, come senso generale di un evento prima ancora che come alberi. Vigoreggiano nelle opere di Godi gli spazi ampi, ingigantiti dal gesto cromatico che colma superfici e prospettive con rapidità, vigore, fremito, brivido addirittura. E si invertono i dati quotidiani. Il verde asfissiato nel cemento urbano viene reso evidente e canta la sua delusa libertà. Una cabina telefonica, una indicazione pubblicitaria, un muro asfittico, diventano anacronistici: la luce e il colore li investono, li deconnotano, esigono il trionfo della vita. Del resto, a questo tipo di lettura il pittore ci ha abituati con le sue opere di denuncia, con quei cimiteri di automobili che sono pretesti pittorici, ma intanto esprimono il decrepito, lo sfacelo, l'abbandono, l'assemblaggio casuale di colori che si sperdono nell'impietoso destino dei rottami. Un pittore come Godi non accetterebbe neppure lontanamente il lezioso, il gradevole, l'appariscente. Il suo discorso è forte, essenziale, istintivo e genuino, eroico, diciamo noi, per l'epica che in esso vigoreggia. Il suo eroismo consiste appunto nell'epica del forte che conosce il dovere e la moralità del quotidiano lavoro, perciò in esso si forgia cantando il senso di una foglia e di quel meravigliosamente grande che vigoreggia in un albero, in un clivo di terra e sole, in un impasto che intuisce e libera l'accenno alla sagoma, che inventa mare e golfo, che respira e sospira, che è istinto e ragione, vigore e misura. Godi è un uomo quindi, un pittore che serba il sistema comunicativo, lo orienta con la coscienza del suo colore e gli dà un codice espressivo che ha l'eticità universale del vero, del semplice, del naturale, con tutto l'istinto della libertà che non muore nella natura viva. Essa è pazienza e grandezza come appunto dimostra questo straordinario artista, nemico degli effetti, forte interprete di verità essenziali e soprattutto pittore con tutti i crismi del mestiere e con la gioia di un discorso che in tanti lustri di attività non si è mai fatto stanco. Anzi vigoreggia nell'esemplarità di una ricerca costante i cui risultati non potrebbero mai appagare un amante del sole a picco. A mezzogiorno la luce svela e rivela, apre le vie del mistero e subito la nega alla visione che si perde nella luce, fine e mezzo del discorso pittorico».

Godi ha avuto il dono della pittura: un’arma che per lui è stata di salvezza.

Michele Buonuomo gli rende omaggio così[20]: «Ci sono pittori per i quali le parole molto spesso sono come un vestito di cerimonia: le «indossano» nelle circostanze giuste, le esibiscono nei momenti di malinconia. Ve ne sono altri, poi, che non hanno bisogno di abbigliarsi di parole per essere riconoscibili, per essere riconosciuti. Per questi ultimi, le parole troppo spesso sono d'impaccio, costringendoli nei limiti di schemi prevedibili e già tutti preordinati. Questi pittori amano il silenzio della Pittura: quegli attimi felici in un rapporto che non prevede interferenze, distrazioni, tradimenti. Goffredo Godi appartiene a questa categoria privilegiata per uno stato di grazia in cui continua a vivere. Per altri versi però fa parte poi di una categoria che più di altre paga per la propria scelta di libertà.

La pittura di Godi è stata nel tempo, e continua ad esserlo oggi, solo una scelta di esistenza, una maniera di sapersi guardare dentro, e allo stesso tempo un saper guardare le cose del mondo attraverso una lente che, nel suo caso, non ha niente di deformante: è lo specchio del suo stesso essere nel mondo.

Godi è un pittore di piccoli incanti, di quelle visioni che non pretendono furori, che non prevedono eroismi, ma soltanto l'assoluto piacere di confrontarsi con la Natura, di dialogare con la Pittura.

Nei suoi paesaggi, nelle sue «nature», come nei suoi ritratti, tutto è giocato attraverso quello stato di grazia fatto di semplice, solitaria, silenziosa osservazione. Gli attimi di felicità della pittura di Goffredo Godi compensano una vita fatta di esperienze di segno negativo, di contenuto doloroso. In altri queste storie avrebbero portato ad uno scetticismo senza ritorno... La pittura lo ha salvato, ed è diventata la sua compagna fedele, sempre bella, con la quale si accompagna con orgoglio».

Gaia Salvatori[21], nel suo intervento su “Il Mattino” nel luglio del 1989, rivolge all’artista parole di elogio per la sua pittura solo apparentemente rapida, ma fortemente indagatoria, che non si accontenta di studiare le apparenze.

«Ischia e Procida in piena luce» non soltanto emergono sotto il sole di luglio nel mare aperto oltre il golfo, ma risaltano anche, nella stessa calura estiva, sulle tele di un pittore di grande istinto e di provata esperienza come Goffredo Godi. «In piena luce», appunto, cespugli e scogli plasmati da grigi e bruni assolati, sono raccontati da una «scrittura» di colore apparentemente rapida e immediata ma in realtà fortemente indagatoria e frutto di lunghi tempi di osservazione. L'atemporalità dei paesaggi e dei gruppi di figure di Godi è determinata infatti dal persistere in una «pittura dal vero» che del «vero» non si accontenta di studiare le apparenze nella loro mutevolezza fenomenica ma si prefigge di insistere - per profonda e sincera convinzione - a ricercare l'intimo equilibrio, il «ritmo» vitale racchiuso.

Un bel paesaggio, pertanto, può «far soffrire», per il troppo freddo e il vento insistente o per il sole inesorabile delle coste mediterranee scelte ad oggetto d'indagine dal «vero», ma si può anche amare fino ad immedesimarvisi. Così per mesi, da un punto di vista scelto ai piedi del penitenziario di Procida, il cavalletto di Goffredo Godi ancorato alla terra da sacchi di sabbia contro le insidie del vento ha amorevolmente insistito, col pennello sempre intriso di colore, a voler abbracciare in un unico grande sguardo il porticciolo della Corricella con le sue propaggini fino a punta Pizzaco con i suoi richiami coloristici fino all'imponente profilo retrostante dell'isola d'Ischia. «In posa» dunque il paesaggio così come le figure sono entrati nella «natura» non imitata ma ricostruita di questo pittore di formazione napoletana che fu allievo di Notte all'Accademia di Belle Arti di, Napoli alla fine degli Anni 40. È dunque una realtà luminosa, mai stanca, candidamente pulsante e senza deformazioni che tinge d'una sorta di quotidiano intimismo le piene luci dei suoi esterni, come dei più rari interni, fatti di presenze e di riverberi di colori prepotenti e nello stesso tempo disarmanti nella loro inequivocabile autenticità.

 Il filo resistente della figurazione che dagli insegnamenti di Notte sembra risalire indietro -per Godi - dagli esempi di Crisconio a quelli di De Gregorio, ha trovato però nelle meditazioni cézanniane di una parte di questa tradizione forse la sua linfa più vitale. L'«impressionante naturalezza» di cui Godi è dotato e il suo «stile costruttivo en plein air non impressionistico ma fortemente strutturato, cézanniano» - […]- rivela però un qualcosa di particolarmente misterioso nel momento in cui la sua solarità senza ombre si fonde con una prospettiva curva, assurta a nuova forma simbolica dello spazio mediterraneo. Se ciò che l'occhio generalmente percepisce è uno spazio limitato e discontinuo, Godi cerca di raggiungere il difficile equilibrio d'una prospettiva sintetica rispondente alle immagini ed agli schemi mentali di uno sguardo non inquinato sulla natura».

L’opera di Godi ha avuto un pregevole approfondimento da parte di Gino Agnese[22], Presidente della Quadriennale di Roma, legato all’artista da una profonda e sincera amicizia. Egli traccia un fine ritratto poetico in cui sottolinea l’autentica umiltà del maestro, che si considera tutt’ora uno studente. Inoltre gli riconosce il merito di non copiare la natura, a dispetto di quanti ritengono il contrario, ma di esplorare le misteriose armonie, i ritmi segreti che la natura nasconde.

«Potrebbe sembrare sottilmente ironica, ma è invece francescana e poetica l'umiltà di Goffredo Godi, questo pittore che è tra i migliori fioriti in Napoli dopo la guerra e che sceglie sempre di accomodarsi in terza, in quarta o in quinta fila quando invece, per i suoi paesaggi inondati di luce, per i suoi ritratti intensi di sentimento, per certi fiori felici di offrirsi alla sua tavolozza, gli toccherebbe il posto d'onore. Ma questo è Godi: un uomo che va con la sua piccola barca nel gran mare tempestoso dell'arte, bordeggiando le coste della tradizione, talvolta azzardando verso l'ignoto che è oltre l'orizzonte e mai invidiando i colleghi che, attraversando lo stesso mare, lo salutano impettiti dall'alto di questo o di quel transatlantico.

Godi ha insegnato per molti anni; eppure anche adesso, che ha passato i settant'anni, si considera uno studente delle Belle Arti, corso di pittura. Aspetta che sorga il sole, che spunti il giorno, per sperimentare i pensieri con i quali, dissentendo e consentendo, si è addormentato la sera. «E se correggo la prospettiva? Ma no, il quadro potrei lasciarlo cosi, perché è più che finito. Oppure, soltanto, potrei accentuare quel tono e ridurre quello scorcio. Sempre che il tempo non cambi, sempre che l'ombra non si estenda, sempre che una nuvola non mi tradisca». Persino alcuni dei paesaggi più belli di Goffredo Godi - come quelli dipinti a Ischia, a Procida o sulla costa tirrenica a sud di Napoli - nacquero da incertezze e da conflitti. Ogni giorno è per Godi il primo giorno di scuola. Ed io, che non ho titoli per dare patenti, voglio però dire di aver conosciuto alcuni uomini di grande valore, nel proprio rispettivo campo, i quali pur vecchi si comportavano come studenti o erano assaliti da differenti opzioni, da opposte suggestioni intanto che ponevano mano all'opera.

[…] Candide - Godi «coltiva il suo giardino» con estrema cura, con amore. Dipinge quasi sempre en plein air e ciò stupisce quanti, ritenendo che Godi copi la natura, ripetono pronti come scolaretti l'assunto che i romantici derivarono dai grandi greci: «Ma l'arte non è banale mimesi, l'arte è creazione, è invenzione. Che vale allora dipingere dal vero la Chiaiolella o il panorama di Furore, Villa Borghese o il Ponte Nomentano?». Ma Godi non copia; Godi cerca le «recondite armonie», i ritmi segreti, le misteriose geometrie che la natura nasconde tra le fronde, nei profili delle montagne, nei volti; e, carpite queste ascose forme, le ripropone poi sulla tela secondo il suo criterio, secondo la sua pittura, che accoglie la grande lezione di Cézanne, mediata da Emilio Notte. Ma non è tutto. Nei migliori quadri di Godi, altre «recondite armonie» si aggiungono a quelle che l'artista ha strappato alla natura; e scoprirle dà soddisfazione allo spirito».

In seguito ad un’ esposizione del maestro al Circolo Culturale “UCAI”a Torre del Greco nel 1992, Riccardo Notte, in un articolo[23] pubblicato sul “Roma”, scrive: «È difficile parlare di Goffredo Godi senza descriverne la personalità d'altri tempi, il candore vangoghiano, l'aura da saggio orientale che egli emana quando di fronte agli impeti altrui osserva che, come nei paesaggi che dipinge, tutto scorre e nulla resta immutato, e che la ricerca del successo e il mito della produzione nascondono all'uomo la sua stessa umanità.

Ma questo è Godi, napoletano di origine, romano d'adozione, proveniente dalla migliore scuola che l'Accademia partenopea seppe esprimere intorno alla metà degli anni Quaranta e ben noto e stimato nell’ambiente.

[…] Osservando i rarefatti paesaggi di Godi, rigorosamente costruiti secondo la migliore tradizione «en plein air», si resta invariabilmente incantati di fronte ad una pittura che si dona all'occhio senza la pretesa di affrontare i massimi sistemi.

Da ragazzo Godi si recava al Granatello, la spiaggia che unisce Portici a Torre del Greco, e lì incontrava Crisconio armato del suo cavalletto da campo e della tavolozza.

Qualcosa della umbratile materia di questo pittore dei Cafè-Chantant e delle nostrane periferie urbane lasciò un segno che si riconosce spesso nei ritratti; ma ben presto Godi scoprì le stereometrie cézanniane, realizzando d'impulso che lo spazio poteva essere trattato geometricamente e deformato da un'ideale lente convessa.

Questa lezione, che mai più abbandonò, si ritrova nei paesaggi di recente produzione: sovente essi raffigurano scorci metropolitani privati della presenza umana ma non dei suoi moderni manufatti, che anzi tornano a sottolineare un mondo fatto di attese e di silenzi; quando si osservano i cimiteri di automobili o i viali periferici di una città in disordinata espansione dipinti da Godi, è difficile non pensare a Edward Hopper. E, come Hopper, Godi cerca refrigerio nelle amene contrade, dove si reca, puntuale alla stessa ora, per cogliere dal vero una rupe, o una sinfonia floreale o l'intrico di una foresta, ma senza alcuna concessione ad un banale naturalismo. Il mistero della natura non ha accessi; tra il linguaggio umano e la verità delle cose non esistono ponti. Accade così che Godi, quasi inconsapevolmente, trasformi gli elementi del paesaggio in un intrico di segni apparentemente significativi, in realtà enigmatici, sottratti appunto ad una lettura precisa, codificata e univoca, come vorrebbe lo spirito del mondo che domina la contemporaneità».

Franco Simongini, ammira in particolare il suo linguaggio pittorico, definendolo segreto. Ecco perché nel catalogo della mostra tenuta nella Galleria d’Arte “Il Canovaccio” nel 1993, intitola il suo brano[24] Godi e i geroglifici della natura.

«Uomo dolce e remissivo, uomo di passaggio, quasi un estraneo, nell'orizzonte di palazzoni a dodici piani di ferro e cemento armato, in un nuovo quartiere sulla Tiburtina, Godi ha il passo leggero, le ali di un angelo che è sceso tra noi per servire, guardare, apprendere, non chiedere nulla, ma soltanto offrire solare anelito di libertà e poesia. Non sono parole retoriche, queste mie, per l'amico pittore (e in quanto pittore, che esprime una sua dimensione della realtà, soprattutto egli è amico di chi guarda i suoi quadri).

È una pittura un po' desueta nel panorama artistico di oggi, proprio per la sua serena smemoratezza d'ogni cosa e conoscendolo ho pensato a lui come un personaggio di quel grande scrittore svizzero ai primi del '900 che fu Robert Walser, poeta indifeso, camminatore accanito, amante della natura (dove scorgeva la presenza divina ) perché per lui un paesaggio "richiama al cuore tutti i paesaggi"; mentre i suoi discorsi più seri li faceva con gli alberi, diceva:"il volto della terra è sempre lo stesso, essa si mette e si toglie le maschere". Anche Walser figlio dell'inquietudine e malinconia, amava la quiete, la profonda calma dell'anima, l'immutabilità della natura, la stabilità delle cose.

Goffredo Godi sembra fuggire la realtà più complessa, lo vedo in fuga per la dissociazione dagli uomini, ora che in lui c'è rinuncia e annullamento nelle cose, si fa servitore e vagabondo per vivere più appartato. Venendo ai suoi quadri, Godi si può definire un pittore tradizionale? Certo, i suoi paesaggi rientrano in una cultura se non proprio napoletana, sicuramente aggiornata su Maestri (tanto per fare due nomi) Cézanne e Morlotti. La biografia di Godi ci dice che ha studiato a Napoli con Emilio Notte, ha frequentato gli studi di pittori come Crisconio e Ciardo, ma occorre sottolineare anche la sua collaterale, riservata esperienza astratta per oltre dieci anni.

Adesso che torna ad esporre a Roma, Godi ci presenta il suo linguaggio segreto, i suoi geroglifici della natura, la sua geografia spirituale: sotto il verde abbacinato dal sole meridionale ha nascosta la sua tacita ribellione ad un certo mondo rumoroso e caotico di oggi. Se notate con attenzione ravvicinata la trama della sua pennellata, non è certo tradizionale, scoprirete che segue il ritmo di un codice tutto personale, linee zigzaganti, a freccia, a diagramma statistico, a modulo ripetitivo, oppure tanti cerchietti, ghirigori, con un alfabeto preciso: mass media, televisione, fotografia, ci bombardano ogni giorno di messaggi, occhi che s'aprono e si chiudono folgoranti e ossessivi sulla nostra vita.

La pittura di Godi così rassicurante, idillica in apparenza, nasconde inquietudini, tremori, ossessioni, come se tutta quella bellezza folgorata dalla luce estiva, fosse precaria, sull'orlo di scomparire, e celasse nelle sue spire il seme stesso della distruzione.

E Godi continua a cercare nella pittura una sorta di terapia personale, un luogo quieto dove nascondersi, mimetizzarsi, parlando con le foglie e gli alberi».

In occasione della mostra personale del maestro a Villa Campolieto a Ercolano nel 1996, Riccardo Notte gli rende omaggio[25] così: «Godi dipinge le realtà già degradate delle periferie urbane, ma accanto a questi luoghi pregni di abbandono e di squallore fioriscono anche singolari paesaggi, robuste maternità; e poi ritratti, piazze, scorci inconsueti, come quei depositi di automobili destinate alla rottamazione che affascinarono anche Guttuso.

In breve, Godi elaborava e riduceva in seno alla tavolozza tutto ciò che abitualmente cade sotto l'occhio di un pittore innamorato del "vero", ma osservando le cose, gli spazi e le persone, unicamente in rapporto al problema dell'oggetto in pittura, e cioè alle masse, alle campiture, ai rapporti tonali, alla luce. Ma forse la caratteristica della pittura di Godi, che fu definito a torto "pittore della realtà", sta proprio nel suo distacco dalla realtà, nel suo vivere il problema della forma in una sorta di sospensione del giudizio, o come direbbero i filosofi in una condizione di "epochè". Come se la realtà del mondo esterno fosse solo una pellicola sottile.

Quella di una tavolozza tormentata allo spasimo da una personalità introversa, umile, eccessivamente preoccupata degli esiti del suo fare».

In occasione dei suoi ottanta anni, Gino Agnese pubblica un articolo[26]sul giornale “Roma”. Ancora una volta traccia un ritratto del maestro che ha sempre dipinto solo ed esclusivamente per il piacere di dipingere, mai per fama e per il mercato e che mai avrebbe saputo, che due maestri della critica d’arte del novecento, Arcangeli e Longhi, avevano discusso di un suo paesaggio da presentare alla Biennale di Venezia, se non glielo avesse detto proprio l’amico Agnese.

«Il pittore vesuviano Goffredo Godi ha festeggiato gli ottant'anni nel suo studio di Roma, affollato di artisti e di amici. E sembrava incredulo, pareva frastornato, nel mezzo della gioiosa occasione ancor più rallegrata da qualche bottiglia d'annata, siciliana o piemontese. Ma dominava nei brindisi l'affettuoso accento napoletano; e i quadri alle pareti ne ricevevano l'afflato, i paesaggi così recuperando le brezze o le calure del giorno in cui furono dipinti, i fiori tornando ai bei tempi dei giardini, la frutta ai momenti della coglitura. Una serata da mettere in cornice.

A Napoli gli artisti di mezza età e gl'intenditori d'arte meno distratti sanno bene chi è Goffredo Godi, questo grande petit maître (così lo definì Carlo Barbieri) che vicino ai cinquant'anni se ne andò a insegnare e a dipingere nella Capitale. Ma scrivendo adesso di lui, io vorrei aggiungere dell'altro; e anche qualcosa che trovai tra libri e carte che lo riguardano, e che l'artista stesso non sapeva, perduto com'è dietro il suo cavalletto, stabile o da viaggio; posseduto com'è dalla passione per la pittura, che non gli dà tregua e lo chiama già di buon mattino, se il tempo è bello, al solito e sempre nuovo incontro con la natura, signora sfrontata in apparenza e invece gelosa della sua più preziosa bellezza, fatta di ritmi e geometrie che si svelano tra le fronde o tra le rocce o tra i petali d'una rosa, o tra le incertezze d'un orizzonte, soltanto a chi quel disvelamento veramente lo merita, se non altro in premio dell'amore speso.

E così il pittore Godi, nella tradizione del plein air, se ne va di buon'ora nei parchi, o in riva al mare, o nei Fori a caccia di queste recondite armonie. Basta un nulla, una nuvola passeggera o un refolo di maestrale, e tutto cambia, dal rosso della rosa all'ombra che l'agave regala al muro. E allora, altri impasti sulla tavolozza e la caccia riprende in tesa osservazione, sperando che alfine la signora Natura si conceda, nella luce giusta e con almeno un po' della sua grazia.

Ma siccome ognuno non è altro che la propria biografia, dicendo di Godi bisogna ricordare qualcosa della sua vita; qualcosa che valga, in sintesi, a presentarlo com'è, indifeso e spaccato all'apparenza, però saldo in realtà e capace d'una intima virtù rara tra gli artisti: quella di sapersi obiettivamente collocare nell'abissale distanza che separa un maestro da un imbrattatele. Certo, gli è gioco facile, perché i suoi quadri più riusciti sono lì a testimoniare la loro eccellenza. Ma tant'è, la sconcertante pratica dell'umiltà - di fronte al creato, di fronte ai grandi - si accompagna in Godi a una consapevolezza, ben custodita ed espressa solo qualche volta nei modi dell'ironia, dinanzi alla quale non c'è da batter ciglio.

Ebbene, la vita di Godi a dirla in due parole è il bel sogno d'un ragazzo di tredici anni che, nato ad Omignano in provincia di Salerno, resta incantato un giorno nel vedere, sulla porticese spiaggia del Granatiello, Luigi Crisconio che dipinge una marina. Diventar pittore? Fare l'artista? Godi era di una famiglia povera, che però strinse la cinghia e l'iscrisse - due anni dopo l'incontro con Crisconio - alla Scuola d'Incisione su Corallo di Torre del Greco, un distinto istituto d'arte, nel quale ancora insegnava Giuseppe Palomba, prediletto allievo di Cammarano. Studia, disegna, dipinge e per aiutare la barca domestica lavora da sarto; finché nel '46 a vent'anni è chiamato alle armi e inviato sul fronte occidentale, ai confini con la Francia, da dove poi passa - fante del 67° , divisione "Legnano" - a quello d'Albania, soldato coraggioso in camminamenti innevati, dove si muore di freddo oltre che di mitraglia. È rimpatriato per esser curato di un congelamento; e poi è mandato nuovamente in Francia, dove è catturato dai tedeschi, nelle cui mani resta due anni a Limburgo, in un campo di prigionia che ancora oggi incendia i suoi ricordi e infuria nei suoi discorsi, che s'impennano in assoluti di spietatezza, di disperato coraggio, di silenziose abulìe; e di fame, una fame anche beffarda, che abbattè per primi due giganteschi corazzieri e alla quale lui sfuggì grazie al talento di ritrattista, che mosse i kapò a dargli qualche patata extra razione. Tornato a Napoli a ventisei anni, fu il meno giovane degli allievi di Notte all'Accademia. Poi, professore del Liceo Artistico e assistente di Spinosa; e pittore titolare d'una diffusa stima, che si coglieva nella discrezione di sicure competenze, lontano dai baracconi del successo, verso il quale Godi ha un'indifferenza naturale, messa in luce, da tutti quelli che hanno scritto di lui, da Micacchi a Franco Simongini.

Una volta, a Leon Giuseppe Buono, che alla fine del '45, scovatolo in un terraneo di via dei Cortili ad Ercolano, dove era passato per caso, gli disse «voi siete così bravo e vi trovate in queste condizioni?» ; e gli diede appuntamento per il giorno dopo da Maresca, accorsato mercante di quadri al Rettifilo; il quale, esaminate due o tre pitture concluse «bene, bene, ci penserò io a farvi un mercato; ma vedete, vedete questo paesaggio? Ecco, dovete d'ora in avanti dipingere così, come dipinge Nicola De Corsi»; e si ebbe una risposta impacciata, ma chiara, che spense l'incontro: «Vi ringrazio, ma sapete... Insomma, quello è De Corsi, che per me è un pittore commerciale; e io sono Godi e dipingo non già per vendere bensì per il piacere di dipingere».

Una vita modesta, appartata, e felice; e costellata di occasioni d'oro, incredibilmente trascurate. Invitato alla Quadriennale romana del '56, Godi vede acquistato un suo paesaggio, "Il Bosco di Portici", da una galleria americana. Gli scrivono da New York la "Salomons" e la "World House" del ben noto signor Mayer, chiedono foto di alte opere per avviare un rapporto; che però svanisce in un mulinello di ritardi, lettere perdute, equivoci di traduzione, banali dimenticanze. E lì, alla Quadriennale, quello stesso "Bosco di Portici", che ora è in America chissà dove, viene notato da un grande critico, Francesco Arcangeli, che ne scrive al numero uno dei critici dell'epoca, Roberto Longhi, affinché inviti Godi alla Biennale di Venezia.

Ebbene, volete sapere? Goffredo Godi, che non ha mai conosciuto Arcangeli né Longhi, lontani mille miglia dalla sua operosa separatezza, ignora ancora adesso d'essere stato al centro di tanta attenzione. Glielo dirò io, che di tutto, per un fortuito caso, ho trovato traccia alla pagina 326 del carteggio Longhi-Pallucchini, pubblicato l'anno scorso dalle Edizioni Charta, di Milano. E ditemi voi, in conclusione, se per i suoi ottant'anni non merita gli auguri più fervidi un pittore così, tanto schivo; un pittore - e so bene quel che dico - i cui migliori paesaggi rivaleggiano con quelli di Morandi, che in buon numero ognuno può ammirare nella Civica Galleria di Torino».

Il critico Carlo Fabrizio Carli[27] loda le qualità pittoriche indiscutibili e l’eccezionale maestria nell’affrontare la tela d’impeto, senza l’ausilio del disegno: è il colore che definisce la forma.

«Accade spesso di dover constatare come i bilanci storico-critici dell'arte del '900, negli assetti fin qui delineati, siano provvisori e carenti, certo bisognosi di verifica. E questo non tanto riguardo ai protagonisti, che hanno sostanzialmente ricevuto la loro sistemazione, quanto relativamente alle figure di contorno ai grandi, per le quali qualche notorietà appare francamente usurpata e molti torti e disattenzioni restano ancora da risarcire. Goffredo Godi appartiene a quest’ultimo gruppo: petite maître,come è stato ripetutamente e autorevolmente riconosciuto, gode di una pubblica fama assai minore di quella che gli spetta. Certo, il pittore (classe 1920) ha avuto i suoi esegeti autorevoli, […]

L'urgenza di dipingere dal vero, la predilezione tematica per i paesaggi e ultimamente per le marine, il gusto di una freschezza cromatica, di una solarità serena e ferma talvolta fino all'incantamento (forse, a ben vedere, sono qui da scorgere l'estremo inveramento della tradizione posillipista, come pure le radici del superamento di una mera vocazione naturalistica), costituiscono altrettanti contrassegni di tale radicamento partenopeo.

Che più specificatamente può racchiudersi nella formula di un cézannismo filtrato attraverso la più umorale e sanguigna attitudine di Notte. Eppure, appena si approfondisca la vicenda di Godi le cose si configurano più complesse: questo pittore, apparentemente tutto sereno e solare, ha conosciuto le sue inquietudini e molteplici, vitali curiosità intellettuali.

Anche a prescindere dai primissimi esordi adolescenziali nel clima e nelle cadenze linguistiche del secondo Futurismo (con ogni probabilità recepito sulla base di un ingenuo entusiasmo per il nuovo), va ricordato nel suo itinerario un più prossimo decennio di esperienza astratta assai importante per l'acquisizione di un linguaggio sintetico e costruttivo, che ha conosciuto, da parte dell'artista, il vertice di adesione nelle tele degli anni Ottanta e Novanta, per rifluire in una maggiore adesione al vero fenomenico, inclinante ad una definizione del dettaglio, ad una pittura più descrittiva insomma, nelle opere più recenti.

E poi la curiosità, si diceva;gli ulteriori echi ed influssi, anch’essi fondamentali: il tonalismo di Melli e di un po' tutta l'eredità, storicizzata e negli estremi esiti tuttora al tempo operante, della Scuola Romana (Godi si trasferisce nella Capitale agli inizi degli anni Settanta); quel costruire il quadro pennellata su pennellata; tono su tono: verde su verde, ocra su ocra (e osservando con attenzione un quadro di Godi viene fatto di meravigliarsi che in natura - e in pittura - possano esistere tante tonalità di verdi e di ocre).

Il nostro artista affronta la tela d'impeto, senza la mediazione dell'impianto disegnativo; è il colore che definisce le forme, restituendo l'impatto visivo ed emozionale dell'impressione retinica. Riesce spontaneo che in un contesto contemporaneo una pittura di questo tipo si collochi sulla linea di confine tra figurazione e informale: vi leggi così, l'eco di Fausto Pirandello, specie nelle figure di bagnanti e soprattutto di Morlotti nei paesaggi: del resto, anche la pennellata di Godi rivela una sua, talvolta rilevata, consistenza materica. Circostanza tutta peculiare,i paesaggi-specie in quelli di risoluzione maggiormente sintetica-appaiono "qua e là cosparsi di misteriosi segni, nascosti come camaleonti tra le foglie", come ha scritto con felice intuizione Gino Agnese. E qui certamente - nell'apparentemente casuale e invece coerentissimo, necessario zigzagare della pennellata rapida, sintetica, costruttiva - da ravvisare il più riconoscibile e perdurante influsso dell'ormai lontana vicenda astratta, e, con ogni probabilità, l'aspetto più stimolante della pittura di Goffredo Godi».

Laura Turco Liveri, nel catalogo[28] delle collezioni permanenti del Museo d’Arte G.Bargellini a Piave di Cento, nel 2003 illustra così la sua arte: «Vedere la natura, il paesaggio, vivo nella tonalità eppur velata dall'atmosfera pulviscolare tipica delle giornate con molto sole. I quadri di Godi sono quasi sempre opachi nella materia; si avvertono nello spessore delle increspature dei tratti; terribilmente si anela toccarli, esplorandone piano tutta la superficie; ma non si può entrare, con gli occhi, dentro quei paesaggi, perché, pur conservando il soffio fresco del reale, quei paesaggi vivono e brillano nella mente».

Goffredo Godi: “Felice di dipingere”. Il testo che riportiamo di seguito è di Gino Agnese,[29] scritto in occasione della mostra personale alla Galleria d’Arte “Lombardi” a Roma.

«Goffredo Godi viene da una lontananza che per i luoghi e i tempi, si specchia abbastanza nelle pagine del romanzo che dette la fama a Michele Prisco: "La provincia addormentata", del 1949. Gli stessi scenari vesuviani, gli stessi anni Trenta. Ma mentre i personaggi del compianto amico Prisco si muovono nelle atmosfere della piccola borghesia, i ricordi di Godi affondano negli affetti, nei quotidiani affanni, nelle allegrie di gente diversa; operai, piccoli artigiani, venditori ambulanti, braccianti. Nelle pagine di Prisco si sbircia il "salotto buono" sempre avvolto dalla penombra, con le poltroncine protette dalle fodere. E quando invece Godi racconta della sua adolescenza, o della prima giovinezza, ecco che giungono da quelle distanze così remote le immagini di case povere ma tristi. E di vicoli, e di figure orgogliose capaci d'impennarsi per contraddire rischiosamente il conformismo; e di tram sferraglianti, nel vento del Miglio d'Oro, verso Napoli.

Figli della povertà che teneva alla dignità, i ragazzi, allora erano presto avviati al lavoro. O per dir meglio, alla "fatica". I più fortunati rubavano il mestiere agli artigiani, giorno per giorno, ora per ora. Godi, in calzoni corti, lo rubò a un artista che era stato a Parigi ma presto si era sentito perduto tra le iperboli della ville lumière e se n'era tornato a Napoli: Luigi Crisconio.

[…] Godi è uno di quegli artisti rimasti sulle rive del torrente che porta con sé la clamante folla dei pittori, degli scultori, dei critici, dei galleristi, degli affaristi che hanno nella mira la notorietà. E' un appartato, felice Candide votato alla pittura. Le sue gioiose battaglie - nello studio o più spesso negli scenari naturali - non gli lasciano tempo da dedicare all'ingegneria del successo, alla quale è del resto mentalmente e persino fisicamente inadatto. Ma a Godi restano soltanto i quadri recenti. Dunque son quasi sessant’anni che la pittura di questo petit maître (come lo definì Carlo Barbieri) è amata e ricercata da una piccola galassia di collezionisti, verso la quale egli ha mantenuto affettuosa gratitudine, perché è un uomo di sentimenti gentili, ma al tempo stesso soltanto scampoli di memoria, preso com'è dal suo fare arte, che tra progetto ed esecuzione lo cattura del tutto senza scampo. Godi infatti non ha mai avuto il tempo e la voglia di curare un suo archivio e quel che conserva (cataloghi, fotografie, ritagli, nominativi, indirizzi) gli è stato messo da parte dal caso o dalle premure dei suoi familiari. […] 

Sono quarant’anni che vivo di scrittura, ma la critica d’arte non fa parte del mio lavoro, che già si disperde in troppi rivoli. Ma forse ho qualche titolo (la mia biografia di Boccioni, gli altri miei studi sul Futurismo, la responsabilità di guida d'una grande istituzione espositiva) per compiere una ricognizione della figura del mio amico Goffredo Godi e per esprimere infine un giudizio: è veramente un petit maître e non c'è dubbio che qualcuno dei suoi quadri migliori ben meriti un posto in qualunque collezione museale dedicata alla pittura di paesaggio del secondo Novecento. Conosco anch'io abbastanza i paesaggi di Morandi (penso adesso alla serie che è nella Galleria Civica di Torino) e perciò sono persuaso che alcune delle più riuscite vedute godiane rivaleggiano con essi non soltanto per la delicatezza dei verdi e ciò benché nei dipinti di Godi si evidenzino i segni - liberi, criptici, talvolta gestuali - della sua appartenenza a un tempo successivo a quello del maestro bolognese: segni che allontanano l'artista dal comune naturalismo pittorico e, oltreché indicare la tensione alla sintesi, costituiscono secondo me una risposta impulsiva alla difficoltà di strappare alla natura i suoi segreti più riposti. Confermo qui questa opinione citando come esempio il “Paesaggio calabrese”del 1980 e il "Paesaggio di Fuscaldo" del '69, non lontani dalla mia scrivania. E risparmiando al lettore la ripetizione di quanto altri diranno - la derivazione di Godi dal suo maestro Emilio Notte, la sua vicinanza a pittori come Garzia Fioresi e allo stesso Morlotti, anch'egli assai apprezzato da Arcangeli - mi piace concludere affermando che è veramente sbagliato associare Godi alla pletora degli epigoni dell'Ottocento napoletano, purtroppo ancora attivi nella loro pigrizia di replicanti. Se proprio si vuol allacciare Goffredo Godi a qualche maestro dell'Ottocento (e sappiamo quanto questi giochi siano azzardati) allora ho qui un appunto preso durante la visita a una mostra, un appunto che regge il gioco; allacciamolo a certa pittura del francese Emile Bernard».

 

Il verde, con tutte le sue variazioni, è il colore predominante di tutta la sua arte. Ecco perché Lidia Lombardi[30] intitola il suo articolo pubblicato su “Il Tempo”, “Tutti i verdi di Godi maestro del plein air”: « Ho visto dipingere Goffredo Godi, col sole allo zenit, sulla terrazza del Pincio. È l'ora in cui questo appartato, nobile artista campano ripone i pennelli. Godi - che indagava sulla tela, come in un grandangolo, la grandiosità della sottostante Piazza del Popolo e cercava di catturare tutti i verdi degli alberi digradanti dal Pincio - metteva una cura lenta, meticolosa, amorevole, nel riporre i pennelli nella sua cassetta. E a me veniva in mente l'incipit della vocazione di Godi, così come l'ha raccontata a chi gli è amico e ama la sua arte: ragazzo senza mezzi nella Napoli dei troppi senza mezzi, rimase affascinato da Luigi Crisconio, tornato sotto il Vesuvio dopo gli anni parigini. Affascinato, precisava poi Godi, specialmente della cassetta di Crisconio. Cosicché se ne costruì una uguale e cominciò a dipingere.

Petit maître - la definizione che i critici hanno coniato per lui, volendo dire dello spessore della sua arte al quale non corrisponde altrettanta notorietà (e la colpa è di Godi, riluttante a credere nei meccanismi pubblicitari del mercato).

Godi, che ha vissuto l'orrore del lager e che si trasferì a Roma negli anni Settanta esponendo in varie Quadriennali, è il fedele erede degli artisti del plein air. Gli sono congeniali i paesaggi, meglio, gli scorci di paesaggi meno blasonati. La brughiera calabra, certe scogliere della Penisola Sorrentina, montagne indefinite nei profili, che fanno eco a Cézanne, o gli argini di Ponte Milvio, o la spiaggia di Torvaianica. Vedute di solitudine, natura senza anime e con tanta anima, perché indagata nelle leggi che la governano, con l'uso assorto e grumoso del pennello. I guizzi di colore - tutti i toni del verde che dissolvono verso l'ocra - vanno oltre il reale nelle sue «riflessioni» su Villa Borghese. Una sorta di senso d'incompiuto, di sospensione di giudizio, giova alla pittura di Godi. Che funziona per ellissi, come gli insegnava Emilio Notte, suo maestro all'Accademia di Napoli. Oltre il mero vedutismo, dentro agli interrogativi del Secolo Breve».

Godi, nel suo costante lavoro en plein air, entra in dialogo con la natura, la quale gli fa provare certe emozioni che cerca di trasformare in pittura; ma è la natura che gli suggerisce questi segni che riproduce sulla tela in modo non lenticolare ma rielaborati in una sorta di alfabeto sconosciuto eppure comprensibile, come sottolinea Lorenzo Canova[31] in un’acuta lettura dell’opera dell’artista nel 2006.

«L’opera di Goffredo Godi è segnata dal rigore di un lavoro silenzioso e appartato, dalla volontà di scoprire nuovi spunti creativi nel cuore di luoghi non soltanto rappresentati, ma riscoperti e “vissuti” grazie alla severa costanza della pittura.

La pittura di Godi si basa infatti sulla forza discreta della sua apparente inattualità, sulla sua dichiarata adesione a canoni stilistici che appartengono ad un passato glorioso a cui l'artista ha saputo tuttavia donare un senso assolutamente personale, una qualità che unisce la tradizione secolare del paesaggio alla presenza fisica di un colore trattato e steso sul supporto attraverso codici che riescono a saldare Cézanne ad un certo informale senza perdere la loro peculiare e autonoma essenza di ricerca sulla luce.

Godi, allora, nel suo rigoroso e costante lavoro en plein air riesce a studiare con attenzione analitica le variazioni e le modulazioni che segnano proprio il rapporto tra luce e paesaggio, tra le forme naturali, le architetture e i segni dell'uomo. Il mare e le case di Procida, gli alberi e i palazzi di Roma sono trasferiti quindi dal semplice contesto della veduta per divenire immersione nella «realtà» e oggetto di rappresentazione, in una trascrizione severa del luogo e dell'ora che tocca un'indagine approfondita sulla materia cromatica. Il colore, in questo modo, si trasforma in un medium che lega la percezione alla memoria per riscoprire frammenti temporali e spazi altrimenti perduti, che fa riemergere alla coscienza immagini e bagliori del passato che usano il paesaggio come pretesto per suscitare flussi mnemonici, per riattivare sensazioni e ricordi che l'arte ha il potere di ricostruire ed evocare.

Del resto, il pittore è molto più consapevole di quanto non voglia far sembrare: in questo modo, da allievo di un maestro dell’avanguardia come Emilio Notte, e grazie anche a quel «decennio di esperienza astratta assai importante per l’acquisizione di un linguaggio sintetico e costruttivo» , ricordato da Carlo Fabrizio Carli, il pittore riesce ad innestare elementi eterogenei e sperimentali in un genere come il paesaggio, capace di essere sempre uno strumento straordinario per le mutazioni dei linguaggi e per le metamorfosi dello stile. Il maestro, non a caso, infonde una connotazione “linguistica” alla sua ricostruzione pittorica, alla conformazione delle sue vegetazioni e delle sue rocce, che il pittore riproduce sulla tela in modo non lenticolare e descrittivo, ma costruendo la parafrasi plausibile e riconoscibile del loro impatto sullo sguardo. Godi lavora come se volesse tracciare i vocaboli di un alfabeto sconosciuto eppure comprensibile, i fonemi di una lingua che riesce ad essere familiare pur manifestandosi come nuova al nostro ascolto attraverso la grammatica di quei segni che, come ha scritto Gino Agnese, «allontanano l’artista dal comune naturalismo pittorico e, oltreché indicare la tensione alla sintesi, costituiscono (…) una risposta impulsiva alla difficoltà di strappare alla natura i suoi segreti». Questa natura ci appare dunque interpretata e trasformata dalla rivelazione della sua essenza profonda, rielaborata dai codici figurativi di una tecnica che trova sempre un nuovo significato nella sua forza metaforica, nella possibilità di scoprire nuovi nessi della visione e degli stati d’animo che attraversano e influenzano il panorama, spesso trascurato o disatteso, della nostra quotidianità.

Il lungo percorso di Goffredo Godi può così dipanare un ininterrotto viaggio iconico e memoriale, sospeso tra le reminiscenze del passato e le certezze del presente, un filo fatto di nuvole e di riflessi sul mare, di architetture e di figure, di cespugli e di montagne che formano il mosaico difforme costruito dagli attimi trascorsi e dalle forme, spesso transitorie, che possono alludere ai passaggi infiniti e alle trasformazioni impercettibili e costanti che accompagnano la nostra vita».

Laura Turco Liveri [32]definisce il colloquio tra il maestro e la natura, un dialogo d’amorosi sensi.

«Non ci si deve fermare all’apparenza iconografica del paesaggio, per Goffredo Godi. In tempi di arte e arti digitali, installazioni ormai vetuste e arti performative che canalizzano masse di persone in un'unica opera, Goffredo Godi è uno dei pochi che ancora si mette davanti al cavalletto e davanti alla tela, e dialoga con gli elementi del paesaggio alla pari, in uno scambio che è anche a volte scontro, e tuttavia sempre costruttivo di nuove forme. Le 'masse' che egli muove sono, infatti, la moltitudine dei segni, distribuiti e calibrati secondo un ordine che il pittore sceglie e trova nel paesaggio. Segni stilizzati dove colore, odore, luce, significato, parola e pensiero, sintetizzati da ciò che egli vede, vibrano vitali, animando, di segno in segno, il ritmo spezzato della composizione, attraversata da lunghe linee prospettiche o incredibili curvature del primo piano.

In ascolto,dunque, come davanti a un’orchestra, Godi sente e riporta suoni visivi in pittura, restituendoci quel piacere che egli stesso prova a contatto con la natura e nel dipingerne le misteriose armonie. Composizione ed equilibrio formale, quindi, servono all'autore «per dire che la natura esiste e dà sensazioni belle» , dimostrando altresì che tramite la ricerca e il processo creativo anche il tradizionale 'brutto' può diventare 'bello'. Chissà cosa intende Godi per «bello» , se non forse una realtà fruibile dall'animo in quanto costruita con una struttura lirica e formale in grado di cantare quel messaggio da lui intuitivamente colto e sintonizzato sulla propria interiore armonia.

Nel domestico, quotidiano, metodico e appassionato confronto con il proprio lavoro, infatti, spalanca in realtà una grande finestra tra noi e il mondo, una finestra aperta grazie alla sua serena e felice disposizione d'animo, e nell'affrontare da solo, con caparbia tenacia, i problemi intrinseci alla resa pittorica, alla resa di forme, atmosfere e incastri generati visti e scelti nel paesaggio stesso.          Un paesaggio che per lui è una melodia suonata sulle onde del vento, sul calore del sole, sui rumori attutiti e lontani che gli pervengono mentre dipinge Antibes, Procida, Torvaianica - luogo delle annuali vacanze estive. Godi è un innamorato del paesaggio, fiaba continua narrata di quadro in quadro, dalle tele emblematicamente quasi sempre delle medesime proporzioni, dove si fondono racconto visivo e sintesi formale. Ed è proprio la rappresentazione di quella musica interiore, di un’eco emotiva ormai raffinata nei colori e nella luce,in parallelo e al di là della riconoscibilità della figurazione, che emerge il doppio livello di lettura delle opere: le sue si potrebbero definire anche «paesaggi della memoria» , dove memoria tuttavia sta per altra vita, quella del quadro e del pensiero dell'autore, sorprendentemente colta e rivelata all'improvviso intravedendo in scorcio la superficie della tela, compattata nei colori e nei segni e mossa da una nuova, inusitata coerenza formale tra particolare e insieme.

E’allora la luce il cardine primario della ricerca dell’autore: medium emotivo ed espressivo, è una luce calda, morbida, seppure bianca, attraverso la quale egli coglie la delicatezza di sfumature cromatiche, quasi calcinate nelle stesure eppure brillanti ad olio. Nel mutare della luce - Godi dipinge quasi sempre dal vero - cambiano le tonalità riportate sul quadro. Perciò fin dai precoci inizi - comincia a dipingere a tredici anni - parte intuitivamente dall'approccio impressionista e cézanniano di visione e acquisizione della realtà, utilizzando l'impressione retinica della luce per determinare macchie e colori. Eppure, mentre per gli Impressionisti la figura si ricompone dalle taches, per Godi invece si assiste ad un necessario, ulteriore scatto in avanti, in quanto con l'impressione cromatico-luminosa e le forme riassunte dal paesaggio secondo il processo di astrazione sperimentato con il Futurismo, con Emilio Notte e poi durante gli anni Settanta, egli tende in realtà a 'scrivere' quasi bidimensionalmente sulla tela, restituendoci, pure sotto l'aspetto fisico della stesura, l'impressione di quel doppio livello di lettura tra figurazione evocativa e 'scrittura' dipinta. Sono segni visuali, spezzati e angolati, non lettere alfabetiche misteriose, beninteso, private, al contrario di altri autori e pure dei futuristi, dell’inclinazione e dello scorcio volumetrico dal quale sono state desunte; perciò segni puri. E se inoltre Godi talvolta non scrive bensì descrive la scena, talaltra invece quella scrittura cromatica gli serve proprio come strumento di indagine e scavo nella realtà medesima, alla ricerca di quelle recondite linee-guida che parlano alla sua memoria emotiva e storica, tentando una realtà altra, da lui appunto interpretata e scoperta.

E’ una questione di linguaggio, infine, quella di Godi, che gli consente di affrontare perciò ogni tema, dalle marine agli interni con figure, dalle nature morte ai paesaggi di Roma e dal Foro Romano a Villa Borghese e ai palazzoni del Tiburtino-Colli Aniene, dove il Nostro vive, e dove attualmente vive anche chi scrive, confermando per esperienza diretta l'aurea trasformazione che Godi è in grado di attuare sul soggetto, trovando e narrando la poesia dovunque si trovi.

E nel linguaggio inoltre risiede la differenza con altri pittori contemporanei che trattano i medesimi soggetti, come ad esempio Gaetano Pallozzi, che come Godi rappresenta scene di vita quotidiana al mare, ma con un intento sociale e psicologico e un iconismo realista volutamente esasperato e da rotocalco anni Cinquanta-Sessanta; o i paesaggi urbani di Giovanni Arcangeli, metafisici nella loro attonita nitidezza timbrica, o quelli della più giovane Alessandra Giovannoni, atmosferici e pastosi tentativi di approccio con una realtà solamente raccontabile, dove protagonista rimane solo la materia. Antecedente illustre e forse più pertinente Carlo Quaglia, poeta del paesaggio romano eppure, anch'egli, sostanzialmente differente nelle impostazioni, nella deformazione cioè espressionista della pennellata e delle stesure. E se insomma per Montale il sensibile Girasole era impazzito di luce, proprio per la luce si vede Godi affrettarsi ogni giorno alla postazione di lavoro, accorrendo come dall'amata, per proseguire quel dialogo d'amorosi sensi, appunto, che permette a questo «petit maître» (C. Barbieri) e - aggiungiamo noi - piccolo poeta, di parlare con serena fermezza attraverso la forza delle forme e dei colori, quei colori alla prima istanza apparsi satinati, opachi, velati dal pulviscolo sospeso nell'aria di giornate assopite o assorte in un lirico silenzio.             In questi tempi di spasmodiche ricerche di segni arcani che possano aiutare a trovare il segreto dell'esistenza, nel disorientamento del nostro tempo, Godi ci dà la sua ricetta, riportandoci alla quotidiana felicità dell'essere e del fare».

In un articolo pubblicato su “Il Tempo” il 10 marzo 2006, Lidia Lombardi [33]lo definisce l’alfiere della rivincita del paesaggio.

«Goffredo Godi è un anziano e sapiente pittore, un «maestro» nel senso più profondo. Perché ha cominciato giovanissimo, formandosi alla illustre scuola di un artista dell'avanguardia quale Emilio Notte, dunque approdando a un'esperienza astratta e al secondo futurismo, infine ripredendosi l'iniziale vocazione al figurativo, e soprattutto al paesaggio. Ma ha pure insegnato, a lungo, nei licei artistici di Napoli e di Roma, insomma ha formato tanti giovani col suo gesto lento, con la cura maniacale che usa nel riporre i colori e pennelli in una cassetta di legno che s'è costruito da solo, con la caparbia ricerca di quel quid, di quel filo elettrico e sensato che c'è nella natura - sia una duna sabbiosa, sia un cespuglio, sia una fontana.

È un ostinato pittore da cavalletto, Godi. Uno che quando «viene la stagione» - da marzo a novembre - se ne va in giro per dipingere en plein air. E non importa quanto il soggetto sia illustre: può essere uno scorcio di mare tra i fossi di Torvajanica, il greto del Tevere, i palazzoni del Tiburtino, le case di Procida, ma anche la settecentesca Villa Carpegna, recente nuova sede della Quadriennale (dove peraltro Godi ha più volte esposto) o i giardini del Quirinale, ultimi scorci prediletti. Una carrellata di paesaggi su tele pressoché tutte della stessa dimensione, quel formato 40X60 che l'artista a fine giornata può agevolmente riporre nella vetusta e gloriosa cassetta per poi tornarsene, con l'autobus, a casa. Vividi i colori, i verdi e gli azzurri. E guizzante il segno, linee spezzate, ad angolo, zigzaganti, a scavare dentro le cose per trovarne un senso, per rispondere impulsivamente «alla difficoltà di strappare alla natura i suoi segreti», come ha osservato Gino Agnese, presidente della Quadriennale.

Mi disse un tramonto d'estate Godi, mentre dipingeva su una spiaggia vicino Roma: «Vede, in questa sabbia informe, calpestata com'è da tanti bagnanti, io cerco un ordine. Miliardi di granellini grigi s'ammassano razionalmente, come in un'armonia. È questo il bello dentro la natura». Goffredo Godi, col suo occhio tenace e sapiente, lo cerca ogni giorno».

Pittore-poeta: così lo definisce Mario Maiorino[34] in un articolo pubblicato nel 2006 su “Cronache del Mezzogiorno”.

«È un'artista, Goffredo Godi, che di tanto in tanto con la sua pittura vive nella mia passata fantasia, quando negli anni Settanta nelle escursioni tra le gallerie romane, "La nuova Pesa", "La Borgognona", "La Galleria del Vantaggio" sostenuta da Giuseppe Sciortino de "La Fiera Letteraria", quella accorsata di Vespignani di Via del Corso ed altre ancora, ci si imbatteva in aperte discussioni, ricapitolando assieme ad Antonio Passa, direttore dell'Accademia Di Belle Arti di via della Ripetta, in compagnia di Elio Mercuri e di Diodoro Cossa, su quelli che al momento erano ancora per tanti i canoni che echeggiavano la cosiddetta buona pittura.

Con Goffredo rimasto su quella linea, gli spiragli erano sempre aperti su una tradizione novecentesca che richiamava la funzione figurativa cézanniana spezzata tra i contrasti di un viaggio di cromatismi memoriali e le storiche emotività; e per questo in continue riscoperte di certe stesure di scorcio e di certe quasi misteriose espressività di fulgori invadenti il paesaggio in piena luce. La partecipazione di Godi, che con la sua pittura viaggiava di continuo in tali atmosfere quasi come se il tempo si fosse fermato ad un ultimo impressionismo filtrato dal proprio agire da una certa continuità romana e napoletana, era primaria; perché egli possedeva quell'inclinazione che convogliava ogni sua opera nel sapore di un'epoca ferma in se stessa; di un'epoca trascorsa tra gli insegnamenti di Emilio Notte approdati nell'aria romana del tempo tra i Quaglia e i Failla e la linguistica di Carli, con delle sincerità di sguardi su un paesaggismo misto tra il napoletano e il romano, e con i postumi di un Giuseppe Casciaro ancora descrittivi di transiti sensazionali.

Oggi Godi, dopo più lustri, è ancora lo stesso, fedele al suo tempo, pur attraversando altre certezze del momento, fatte di ben altro. Il suo dipinto manifesta sempre un'architettura naturale con dei codici figurativi presenti per taluni stati d'animo nei dipanati riflessi di sintesi costruttive; ed è tale ancora nella sua quotidianità riportante i ricordi come da una scrittura di un testamento che merita di essere riletto per transiti di figure, montagne, laghetti, mare, cieli, terra, in una completezza di costruzioni rivelate nella loro propria essenzialità.

Intanto, ne rivedo gli stimoli attraverso gli attraversamenti dei luoghi descritti tra "Il laghetto di Villa Borghese" e "La chiatta di Procida" dell'incantata isola tirrenica, napoletana, nel tutto come da un album in cui la veduta o le vedute siano accompagnate da liriche di quotidiana felicità, e in uno spessore poetico misto ad una propositività misurata, eppure sognata tra tanti umori messi insieme.

Godi è un pittore che ama più che altro dipingere paesaggi quali che siano, anche lontani dalla sua terra d'origine, prima di essere pittore d'animo; che anzi questa sua preferenza in un viaggio mai interrotto nel tempo fa rinverdire nel suo presente anche il suo passato con la vitalità di uno stile mai perduto e sempre annotato nelle continue riscoperte provenienti dal suo profondo; ed è anche un figurativo tra i più avvertiti di naturali emozioni, del nostro tempo e della nostra temporalità: un pittore-poeta che declama versi napoletani, di una piacevole napoletanità; e romani, di un romanesco che è sempre nell'aria con i monumenti, le strade, il pincio, Torvajanica con i segreti in essi raccolti, alla pari, appunto, di quelli napoletani delle strade, delle marine e dei borghi, in cui le case affastellate, descritte con una tecnica quasi metaforica, sono vincolate all'espressione di una consacrazione.

Il suo naturalismo pittorico, perciò, è nell'inclinazione allo strappo dei segreti tracciati con tocchi di colore tutti appoggiati gli uni sugli altri che accompagnano la vita del tempo e delle stagioni. In sostanza, in lui è il respiro dell'aria e dei luoghi che dipinge e delle interpretazioni su uno scivolo romantico legato unicamente a se stesso. In fondo, in questo egli è e rimane anche un vero e sentito poeta dei colori e della natura che vive ancora con tutti i disastri dell'abbandono umano, quando non addirittura della distruzione: ed è anche col suo fare un archeologo, se per archeologia voglia anzitutto intendersi custodia del trovato e del veduto con immagini che rimandano al tempo perduto. Il tutto con una propria grammatica segnica di macchie fatte di pittura tonale, di ridenti e piacevoli colorazioni».

A conclusione di questo excursus, riportiamo la bella pagina di Gino Agnese[35] in cui rivolge all’artista parole di encomio, definendolo una persona speciale, innamorato della vita quanto della pittura.

«Quest’anno, alle prime avvisaglie della calura estiva, il vesuviano Goffredo Godi ha voltato le spalle a Roma – dove vive e lavora da trentasette anni – e se n’è andato per qualche settimana a San Cristoforo, nel fresco del Trentino. Come sempre ha fatto in ogni suo viaggio, anche stavolta ha portato con sé quanto gli occorre per dipingere en plein air: e cioè la “cassetta” (una valigetta di legno che costruì egli stesso) che contiene pennelli, spatole, colori, solventi, nonché tavolette e tele; e un leggerissimo cavalletto “a cannocchiale”, il cui ingombro si riduce a poco. Le vedute di montagna lo hanno entusiasmato, gli scorci e gli specchi lacustri attorno a Levico e a Caldonazzo lo hanno catturato, qualche gita più lontano ha risvegliato in lui momenti e canti. Ed ecco, tradotto in pittura, il bilancio di questo soggiorno: sette quadri di cm 30x40, una misura che poi tanto piccola non è e che, comunque, è tra le predilette dell’artista. Che cosa si può dire ancora di Goffredo Godi? Come si possono commentare quei sette quadri e quegli altri, recenti anch’essi, ch’egli ha dipinto intorno alla sua casa di vacanza del litorale romano, affacciata sul mare di Torvajanica?

Io che sono un professionista della scrittura da più di quarant’anni, tuttavia non esercito la critica d’arte a cagione di motivi che non è il caso di spiegare qui. Poi, essendo il presidente della Quadriennale di Roma (che assieme alla Biennale di Venezia e alla Triennale di Milano compone la triade delle storiche istituzioni espositive italiane) doverosamente mi astengo dall’esprimere pubblici giudizi sul lavoro degli artisti.

Ma faccio qualche eccezione per chi, come Goffredo Godi, è una persona speciale: un uomo innamorato della vita, uno spasimante della pittura, un patriarca agile e allegro di ottantasette primavere e passa, un artista che ha sempre trovato acquirenti delle sue opere senza averli mai cercati, […].

Poi, last but not least, Goffredo è mio amico.

E allora, di quei sette quadri dipinti nel Trentino, diciamo subito che, quasi tutti, appartengono alla pittura contemporanea. Sono opere eseguite sul momento, senza preparazione, in quella immediatezza che – Emilio Notte ne fu persuaso – sarebbe per Godi la condizione ottimale. Un’immediatezza, un’urgenza di sintesi, da cui è derivata un’impronta espressionista ben singolare in un autore che, ovviamente per li rami nottiani, discende invece, come tanti della sua generazione, dal post-impressionismo o addirittura dall’impressionismo.

Chi dipinge più en plein air, con tanto coraggio, così dal vivo, con tanta sicurezza? Sono gli ultimi scampoli di una pittura di robusto mestiere, che indaga la natura accogliendo refoli di poesia. La indaga in modo incalzante nei paesaggi trentini e in maniera più analitica in quelli del litorale romano, con esiti meno vibranti ma più compiuti. Una pittura che basta a se stessa, quella affettuosa di Goffredo Godi».

Immacolata Marino



[1] Cfr. Domenico Spinosa, Goffredo Godi, in «Nostro Tempo», marzo 1956, Napoli.

[2] Cfr. Armando Miele, La cittadella Arte, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Il Vaglio”, Firenze, 1967.

[3] Cfr. Antonio Colasanto, Realtà vesuviana, in “Roma”, venerdì 7 marzo 1969, Napoli, p.7.

[4] Cfr. Pasquale Fiengo, Un pittore: Godi, in “Il Vesuvio”, marzo 1969, Napoli.

[5] Cfr. Arcangelo Izzo, La sintesi del colore, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “L’Approdo”, Napoli, 1969.

[6] Cfr. Carlo Barbieri, I doni di un petit Maître, catalogo della mostra personale alla Galleria Turchetto, Napoli, 1977.

[7] Cfr. Bonifacio Malandrino, Pennellate di Pace,  catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “La Scogliera”, Vico Equense, 1970.

[8] Cfr. Piero Girace, Artisti Contemporanei, Editrice E.D.A.R.T., Napoli, 1971, p.499.

[9] Cfr. Ciro Ruju, Il dato naturale come forma significante, catalogo della mostra personale alla Galleria Turchetto, Napoli, 1977.

[10] Cfr. Elio Mercuri, 2°Repertorio delle istituzioni pubbliche e della ricerca dell’arte, Editrice Del Carretto, Roma, 1977.

[11] Cfr. Renato Civello, Quattro artisti nel segno del rigore, in “Secolo d’Italia”, venerdì 19 maggio 1978, Roma.

[12] Cfr. Mario D’Onofrio, Sintesi visiva, catalogo della mostra personale alla Galleria Arte “Canovaccio”, Roma, 1978.

[13] Cfr. Sergio Rossi, 3°Repertorio delle istituzioni pubbliche e della ricerca dell’arte italiana, Editrice Del Carretto, Roma, 1978.

[14] Articolo inedito.

[15] Cfr. Gino Grassi, I paesaggi di Goffredo Godi, Supplemento al n.19 di “Napoli Oggi”, 12-19 maggio 1983, Napoli.

[16] Cfr. Dario Micacchi, Un’idea serena del mondo in piena luce, catalogo della mostra personale all’Accademia “Pontano”, Napoli, 1983.

[17] Cfr. Dario Micacchi, Goffredo Godi e la vittoria sul sole, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Margherita”, Roma, 1985.

[18] Cfr. Italo Marucci, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Il Leone”, Roma, 1987.

[19] Cfr. Angelo Calabrese, La pittura dei fatti in piena luce, catalogo della mostra personale al Centro d’Arte Contemporanea, Comune di Portici, 1988.

[20] Cfr. Michele Bonuono, Appunti di un attimo felice, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Del Monte”, Ischia, 1989.

[21] Cfr. Gaia Salvatori, Il mondo «in posa» di Godi, in “Il Mattino”, martedì 18 luglio 1989, Napoli.

[22] Cfr. Gino Agnese, Recondite Armonie, catalogo della mostra personale al Comune di Furore, Costa d’Amalfi, 1991

[23] Cfr. Riccardo Notte, Silenzi metropolitani nei paesaggi di Godi, in “Roma” (sez.cultura e spettacoli), domenica 22 novembre 1992, Napoli.

[24] Cfr. Franco Simongini, Godi e i geroglifici della natura, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Il Canovaccio” Studio del Canova, Roma, 1993.

[25] Cfr. Riccardo Notte, Goffredo Godi non è un pittore in patria , in “Roma”, domenica 3 novembre 1996, Napoli.

[26] Cfr. Gino Agnese, Gli ottant’anni di Goffredo Godi, in “Roma”, giovedì 21 settembre 2000, Napoli.

[27] Cfr. Carlo Fabrizio Carli, Superamento lirico del naturalismo, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Serio”, Napoli, 2002.

[28] Cfr. Laura Turco Liveri, La materia dei paesaggi oltre la superficie, catalogo delle collezioni permanenti del Museo d’Arte G.Bargellini, vol.6, Pieve di Cento (Bologna), 2003.

[29] Cfr. Gino Agnese, Felice di dipingere, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Lombardi”, Roma, 2004.

[30] Cfr. Lidia Lombardi, Tutti i verdi di Godi maestro del plein air, in “Il Tempo”, martedì 6 aprile 2004, Roma.

[31] Cfr. Lorenzo Canova, I segni del paesaggio, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Faleria”, Roma, 2006.

[32] Cfr. Laura Turco Liveri, L’alfabeto del paesaggio, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Faleria”, Roma, 2006.

[33] Cfr. Lidia Lombardi, L’alfiere della rivincita del paesaggio, in “Il Tempo”, 10 marzo 2006, Roma.

[34] Cfr. Mario Maiorino, Il naturalismo pittorico di Goffredo Godi, in “Cronache del Mezzogiorno”, giovedì 9 marzo 2006, Salerno.

[35] Cfr. Gino Agnese, La felice pittura di Goffredo Godi, catalogo della mostra personale alla Galleria Del Monte arte contemporanea, Forio, 2007.


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