Godi, nasce ad Omignano (Salerno), ma “trova” padre e madre a Ercolano (Napoli); erano trascorsi appena tre giorni dalla sua nascita, perciò può dirsi veramente figlio di questa città alla quale ha dedicato tante opere.[1]

Fin dall’infanzia il piccolo Godi dimostra un precoce talento pittorico, appena può, si dedica a disegnare tutto ciò che vede, rapidamente e senza esitazioni, infatti, prima ancora di riconoscere le lettere dell’alfabeto egli le disegnava: la sua accesa fantasia lo portava a copiare i segni che lo affascinavano; memorizzava disegnando, copiando freneticamente, per esempio, le figure delle suore della scuola elementare di Gemma dell’Aquila Visconti da lui frequentata.

Il grande libro del paesaggio e la figura umana, che viene ritratta con la sua vera intimità segreta, sono approdi di un percorso iniziato tanti anni fa da uno “scugnizzetto” che apprendeva voci e volti, uomini e fatti di Via Mare e viveva tra gente operosa tra reti, attrezzi e “mestieri” di pescatori, strumenti d’uso degli artigiani che lavoravano al lume dei lampioni: di luce ce n’era poca a quei tempi.

Quando il mestiere di pittore cominciò ad essere qualcosa di più che un’istintiva vocazione, Godi ritrova con più forte passione i suoi personaggi più cari. Li aveva già disegnati di getto da bambino e da adolescente, sapeva, infatti, istintivamente cogliere nei ritratti qualcosa che non apparteneva alla sola fisionomia identificativa, ma predominava già una ricerca di approfondimento dell’aspetto psicologico dei personaggi, però ora che aveva acquisito cultura e strumenti di più approfondita lettura e resa, era più felice di mettere in posa i suoi parenti e amici pescatori, di cogliere le verità di scene familiari, mentre nel teatro naturale delle povere case vedeva le donne sorprese nell’intimità del loro lavoro, intente ai tramagli, a rattoppare le reti, ai più nobili impieghi del ricamo e dell’uncinetto.

Tutte le esperienze di bambino e poi d’adolescente risultarono utili a Godi; anzi proprio a quelle poté ricorrere in momenti difficili e lo vedremo più avanti.

Figlio della povertà che teneva alla dignità[2], fu presto avviato al lavoro, o per dir meglio alla fatica.

Gli giovarono soprattutto quei rudimenti del mestiere del sarto al quale era già stato avviato dalla famiglia mentre ancora frequentava la scuola elementare.

La bottega del sarto era molto attiva, il ragazzetto che eseguiva i lavori più facili si divertiva, in assenza del principale, a fare dei ritratti agli abituali clienti. Li eseguiva con la naturalezza che è propria dei fanciulli e furono apprezzati dal pittore Luigi Palumbo, che era di casa in quella sartoria.

“Capabianca”, questo era il soprannome del pittore perché aveva lunghissimi capelli bianchi, era di Torre del Greco, noto per le sue realizzazioni di tappeti eseguiti in occasione delle festività dei Quattro Altari. I suoi personaggi sono rimasti impressi nella mente di Godi, li caratterizzava con le mani tozze e i volti rossi. Decise di prendersi cura del piccolo Godi, che non aveva ancora nove anni, quando cominciò ad apprendere il mestiere del sarto, lo volle nel suo studio gremito di tele e di reperti tra i più disparati, inoltre gli parlò dell’esistenza della scuola del corallo, l’Istituto d’Arte di Torre del Greco.

Ma l’amore per la pittura è stato trasmesso a Godi da uno dei più interessanti artisti napoletani attivi tra ‘800 e ‘900 e che era stato a Parigi, ma si era sentito perduto tra le iperboli della “Ville Lumière” e se ne era tornato a Napoli[3]: Luigi Crisconio.

Godi aveva appena tredici anni quando, nella primavera del 1934, lo vide dipingere, “en plein air”, una veduta del porto del Granatello, a Portici, e da allora si votò ai colori.

Crisconio dipingeva al porto, nel frastuono di mille voci, tra il fischio assordante delle sirene, dipingeva la vita dei lavoratori, la realtà nella sua più spietata crudezza ma anche nella sua più bella ed eroica umanità[4].

Goffredo lo scorse e ne seguì le mosse per alcune mattine. Più che ai paesaggi che Crisconio dipingeva, fu attento al maneggio dei pennelli, ai modi degli impasti, soprattutto alla cassetta, vero scrigno delle meraviglie, dalla quale il pittore estraeva tela, tavolozza, colori, pennelli, solventi e quant’altro gli occorreva.

Ad occhio ne prese le misure, mandò a mente la disposizione dei comparti, osservò bene il tutto e dopo pochi giorni, lui stesso, ne fece una uguale. E così Godi precipitò nell’avventura che ancora adesso lo mantiene fresco di sentimenti. Ecco come dal disegno giunse al colore; trovarsi accanto a Crisconio, personaggio chiave dell’arte italiana anteguerra, mentre dipingeva nell’aria portuale del Granatello fu per lui davvero illuminante.

Nel 1935, vista la sua naturale inclinazione per la pittura, si iscrisse alla Scuola di Incisione su Corallo “Maria José del Belgio”, a Torre del Greco, diventando allievo di Giuseppe Palomba, un artista della scuola di Michele Cammarano, che Godi identifica come il suo vero maestro.

Che Godi fosse un allievo di forte tempra, lo attestano i riconoscimenti meritati in quella scuola che formava alla tecnica, alla storia dell’arte e dava impronta di cultura generale; meritò in un concorso un primo premio e ricorda sorridendo: “Mi conservarono i soldi per la maturità”; ricorda anche che di tanti ritratti eseguiti in quegli anni per amici e docenti, ce n’era uno, a spatola, dedicato a Ferracciù[5], allievo del Fattori e direttore della Scuola del Corallo, che venne molto apprezzato, tanto da essere esposto nell’Istituto. Si diplomò nel 1939.

Ricorda, inoltre, una mostra di aeropittura ad Ercolano, erano gli anni ’38 o ’39, organizzata forse dal segretario politico Ercole Del Prato. In quella mostra importante il giovane studente fu entusiasmato dalle opere dei Futuristi, soprattutto da quelle di Gerardo Dottori, al punto che seguì quel movimento più da vicino, anche se, ad onor del vero, certe impronte erano già state anticipate dallo stesso Palomba che dava ampio spazio alla creatività dei suoi allievi. Quel maestro aveva insegnato il segreto di cogliere il tutto in pochi piani con scelte attente di geometrie significative: impianto classico, visione moderna.

I pittori della prima gioventù furono quindi per Godi, oltre a Palomba, che ancora ricorda con amore e venerazione, tutti quegli artisti di forte indole, che egli incontrò ed ebbe poi come compagni di strada.

A Portici c’erano Enrico Placido che spesso dipingeva insieme con Crisconio, Alfredo Avitabile, allievo di Cammarano e appassionato studioso ed Ettore Sannino, su cui ha agito significativamente l’esemplarismo crisconiano; inoltre veniva da Pozzuoli Leon Giuseppe Buono con il quale mantenne in seguito fervidi rapporti.

Non era ancora ventenne, avrebbe infatti compiuto gli anni ad agosto, allorché la classe 1920 fu chiamata alle armi. Era il marzo del 1940: per cinque anni e sette mesi indosserà la divisa militare.

Quando partì soldato era con il 67° Reggimento di Fanteria della Divisione di “Legnano” sul fronte occidentale, Monginevro. Successivamente fu destinato al fronte greco-albanese. A causa di un congelamento ai piedi fu mandato a casa con una licenza di tre mesi di convalescenza; in questo periodo studiò per sostenere come privatista gli esami di maturità al Liceo Artistico per poter accedere, poi, all’Accademia, incurante del rischio di essere dichiarato disertore in quanto nei giorni in cui sosteneva gli esami scadeva la licenza. Tornato al suo impegno di soldato, fu trasferito nuovamente al fronte occidentale.

Dopo, il 9 settembre 1943, fu catturato dai Tedeschi e fu tenuto prigioniero a Grasse.

Autoritratto per non dimenticare -
                                                     Natale 1944 dietro i reticolati del Lager

In guerra e in prigionia vive una realtà triste, violenta, un’esistenza condotta senza un programma, chissà se il ritorno a casa sarà solo una speranza, ma quando dipinge tutto ciò viene cancellato. Nel gesto pittorico egli trova pace, lenimento alle sue amarezze, in esso affidava comunque la sua aspirazione di giustizia; infatti, nei due anni a Limburgo, nel Lager XII A, neppure nella sofferenza più atroce, Godi abbandonò la sua arte. “Ho modellato anche la neve”, ricorda l’artista, che si serviva di ogni supporto per eseguire ritratti dei suoi commilitoni e cogliere dei paesaggi. Il suo autoritratto in prigionia è una testimonianza precisa del suo stato d’animo.

Le sue opere figurano nella “Mostra degli Artisti Italiani internati in Germania”, Godi ricorda il ritratto fatto al capitano Ferri e i disegni su “Bianco e Nero”, il giornale pubblicato nel Campo di Liberazione, dove c’era un teatro, a Brauweiler, a nove chilometri da Colonia: “Eravamo alloggiati in una chiesa medievale, eravamo tutti antifascisti e avevamo conosciuto tutti l’inferno della prigionia.

Godi, mise a frutto tutte le esperienze della sua vita nei momenti difficili della guerra, del Lager XII A, del Campo di Liberazione. Egli aveva dichiarato di essere sarto: aveva appreso i rudimenti di quel mestiere e ne ebbe grandi vantaggi. Poté, infatti, lavorare tra i sarti e i calzolai, avere a disposizione la macchina per cucire: c’erano dei veri sarti nel Campo di Liberazione, dove poté avere un vestito ricavato da una coperta americana e quando finalmente poté tornare a casa, nell’autunno del 1945, indossava proprio quel vestito. Trovò solo sua madre, vedova da due anni e quell’abito fu tinto di nero perché il giovane scelse così. Godi ricorda: “Una terribile notte ero sulla branda durissima, ero agitato nel sonno, ebbi la visione di mio padre morente”. Quando poté riabbracciare sua madre, dal suo racconto di quella morte poté costatare che era stata rispecchiata totalmente nella verità del sogno. Quel padre tanto amato aveva detto alla consorte nelle sue estreme parole: “Non temere, tuo figlio tornerà”.

Comunque con l’aiuto degli amici commilitoni, sarti davvero, egli ebbe nei momenti più tristi anche qualche camicia e certo ricambiò con i suoi ritratti.

Ne aveva eseguiti tantissimi anche per soddisfare le sue esigenze di accanito fumatore: ritratti in cambio di sigarette. Disegnava sulle cartoline di franchigia, le uniche tele di cui poteva disporre, che erano poi inviate a casa dai prigionieri, i quali così si facevano “ritrovare”dai loro familiari.

Arte per sigarette, arte per non avvilirsi dove la ferocia immotivata avviliva tutte le vittime del Nazismo. Non c’era differenza di trattamento tra ebrei e italiani: la ferocia era la medesima nel Campo XII A di Limburgo.

Di quel campo di smistamento non restano più tracce, se ne è negata perfino l’esistenza, testimoniata invece dai dipinti di Godi che s’intenerisce al ricordo di Don Manfredo Mai.

Goffredo da fervente credente, allora lo era e lo confessa, per quel sacerdote che si era inventata una cappella dove celebrare la messa per i prigionieri aveva dipinto un’Assunzione con gli angioletti.

Da una parte c’era la pietà e la fede nei valori della vita, dall’altra c’erano dei prussiani come il Colonnello Lober sempre con la pistola in pugno e pronto a terrorizzare i prigionieri solo per il gusto di vederli tremare; ma Godi ha avuto il dono della pittura: un’arma che per lui è stata di salvezza, il Colonnello Lober amava le arti e per questo provava per il giovane artista una certa ammirazione, difatti gli fece dipingere una Crocifissione.

StamLag XIIA

Se non l’avesse confessato di persona, non avremmo mai pensato che Goffredo, uomo di pace e assolutamente contrario alla violenza, avesse osato assalire un sergente tedesco, una vera carogna, che aveva preso a calci un tubercolotico solo perché era affamato e attendeva che il nostro pittore gli portasse una gavetta di cibo che si era procurato dai prigionieri americani. Il sergente mise mano alla pistola, ma un alpino toscano, Tenardi, così si chiamava l’interprete di tedesco di quel campo, lo tramortì prendendolo a pugni. Se Godi non fosse stato pittore le conseguenze sarebbero state gravissime; lo salvò proprio quel colonnello prussiano che si schierò contro l’eccesso di ferocia.

È importante notare come l’arte nutra veramente lo spirito: aiuta, infatti, a non perdere le umane misure.

Quando quel sergente tedesco, di cui abbiamo appena parlato, dopo la Liberazione venne catturato e i francesi volevano fucilarlo, Godi intervenne perché non fosse ucciso.

Nell’autunno del 1945, tornò a casa, a Ercolano, e volle completare i suoi studi; infatti, a ventisei anni si iscrisse al corso di pittura di Emilio Notte, all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, aveva la frenesia di chi vuole recuperare tanto tempo perduto: “Dipingevo come un dannato.”

Emilio Notte, nelle scelte accademiche appoggiava quegli allievi che più di altri si erano dimostrati interessati e interessanti prediligendo una didattica pervasiva, ma non invasiva, riconobbe subito il pittore di razza, rivolto agli allievi, disse: “Qui abbiamo un piccolo Cézanne”.

Era solo Godi, che autonomamente e istintivamente aveva sviluppato un linguaggio che ricordava la costruttività del colore cézanniana; dipingeva, in realtà, come aveva appreso da Palomba e da se stesso con il costante esercizio.

Rischiava però di diventare fin troppo esigente e in questo gli valsero i consigli del Notte che lo fermava prima che egli giungesse alle estreme conseguenze.

Emilio Notte gli fece scoprire il valore dell’atmosfera nel paesaggio, “Tu devi disegnare l’aria tra te e il soggetto che hai scelto, non devi succhiarti l’atmosfera”.

Godi apprese a semplificare quei rapidi ritmi che fanno vibrare l’opera in tutta la sua vitalità espressiva.

La carriera di Godi è parallela a quelle di tanti suoi compagni di viaggio: artisti di forte tempra e di notevole creatività che hanno sempre apprezzato la coerenza di un collega che non solo imparò ad apprendere, ma anche ad insegnare.

Si diplomò presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli nel 1950 e già nel 1952 era nel Liceo Artistico come assistente di Domenico Spinosa.

Per dire il vero, Notte lo avrebbe voluto con sé; ma il posto era occupato da Corrado Russo. Intanto al Liceo c’erano dei posti in concorso: Godi sarebbe potuto essere assegnato alla cattedra di Amoroso o a quella di Spinosa che lo ebbe, sotto suggerimento di Notte, come assistente per tre anni; tra i due si creò un rapporto di stima e di amicizia sincera.

Quando Spinosa vinse il concorso per la cattedra di pittura all’Accademia, Godi divenne assistente di Troiani. Alla morte di questo professore, egli lo sostituì in pieno e gli fu conferito l’incarico. In questi anni Godi lavorò a Portici in un cenacolo d’arte, tanti studi di pittori in un solo attico, con Carmine Arnese, Michele De Stefanis, Carlo Montarsolo, Alfredo Di Giovanni, Alfonso Pone, Mario Guglielmotti ed Ettore Sannino, accomunati da grandi ambizioni di incontro e confronto e soprattutto dall’assoluta indipendenza da influenze esterne[6], fuori da ogni movimento organizzato, fedeli solo al proprio istinto.

Immacolata Marino



[1] Cfr. Angelo Calabrese, Le ragioni della speranza, Editore Solforino, Ercolano, 1996, cit., pp.7 e ss.

[2] Cfr. Gino Agnese, Felice di dipingere, catalogo della mostra personale alla Galleria d’Arte “Serio”, Napoli, 2002, cit., p.4.

[3] Ibidem

[4] Cfr. Schettini-Ricci, L. Crisconio, catalogo della mostra alla Galleria Giosi, Napoli, 1947.

[5] Renato Ferracciù succede ad Enrico Taverna il 6 novembre 1934; sarà direttore fino al 1951. Disegnatore grafico fine e virtuoso. La sua direzione sarà contraddistinta da quattro elementi fondamentali: l’affievolimento della collaborazione con le industrie e le ditte coralline, le tormentate vicende della scuola nel periodo bellico e post-bellico, il sodalizio artistico della scuola col maestro orafo Alfredo Ravasco e, sul piano tecnico-didattico, la nuova tecnica ad impiallacciatura, procedimento che consente di ricoprire piccole sculture od oggetti con tasselli di madreperla. Cfr. Carlo Ciavolino, Istituto Statale D’Arte e Museo del Corallo, Edizione ISA, Torre del Greco, 1985.

[6] Cfr. Ciro Ruju, Storia dell’avanguardia artistica napoletana (1950-1970), Edizioni Dehoniane, Napoli, 1983, pp.65 ss.


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