Merita un’analisi più articolata il quadro artistico nel quale il nostro artista si è formato e ha svolto la sua attività pittorica.

Vissuto negli anni che hanno visto correre tante tendenze artistiche, Goffredo Godi non si è mai legato ad un movimento o ad un gruppo, lavorando da solo, da vero artista; ma poiché nelle sue note autobiografiche ricorda personalità di rilievo che hanno dominato la scena culturale e artistica della Napoli dal primo al secondo dopoguerra, ritengo che vada meglio messo in evidenza il percorso complessivo che caratterizzò questi anni[1].

Il clima del primo dopoguerra non doveva essere molto esaltante; tuttavia, come spesso accade dopo i grandi disastri della guerra, si coglie anche una spinta a ricostruire e a risollevarsi dalle macerie.

Il peso della tradizione era spesso schiacciante[2]: molti protagonisti dell’Ottocento, ancora vivi, avevano una presenza condizionante; in sede nazionale i nomi di artisti napoletani che contavano erano ancora quelli di Gemito e Mancini.

Dunque, la pittura napoletana era influenzata enormemente dalle esperienze precedenti, limitandosi però talora ad un vedutismo locale e ad un pittoricismo di facile fruizione, pur in presenza di artisti di altissimo profilo tecnico ed artistico, cito almeno Leon Giuseppe Buono, Luigi Crisconio, Enrico Placido e Eugenio Viti.

Citare questi artisti è obbligatorio, essi usano il materiale che trovano a disposizione per la strada e nella tradizione, ma lo trasformano profondamente.[3]

Guardando i quadri di costoro non si trova nessuna traccia di folklore. Non si riceve l’impressione di trovarsi di fronte ad un mondo invecchiato.

Se ci poniamo di fronte ad una tela di Viti (1881-1952), la sua pittura per blocchi pieni e possenti, è napoletana solo nel senso che l’artista ha assorbito la pittura seicentesca. La storia di Napoli ci sta dentro con quella corposità popolare e terrena che è esattamente l’altra faccia del pittoresco e del caduco.

E che dire del grande recupero, direi quasi storico, di una storia nostra personale e memoriale operato da Buono (1887-1974). Dipinge marine, barche, pescatori della sua Pozzuoli, ma basta portare a confronto la sua opera con quella sugli stessi temi di un pittore di genere per toccare con mano l’abisso che separa la pittura di Buono, che ha il carattere di un mondo inventato e intuito, da quella dell’altro perdutasi nelle macchie sporche di un clichè.

Un discorso dello stesso valore si attaglia ancor meglio all’opera di Enrico Placido (1909-1983); in essa si può avere la riprova che si può intervenire in un mondo vecchissimo come quello napoletano senza strafare.

Mentre la personalità di Crisconio (1893-1946), la cui opera abbraccia un arco assai ampio nella storia delle arti figurative del Mezzogiorno, è di fatto la protagonista assoluta della pittura napoletana dal 1920 al 1946, quando, improvvisamente morì. L’artista è impegnato nell’analisi del reale, con un impeto che stravolge schemi iconici scontati per proporre, nello spirito e nel contenuto, una Napoli inedita, popolare e terrena.

La realtà artistica di questi anni vede, comunque, un gruppo di giovani artisti, spinti da una volontà di innovazione, tra i quali Eugenio Viti, Edgardo Curcio, Gennaro Villani, etc., che in contrapposizione alla pittura accademica e ufficiale di quegli anni danno vita alla cosiddetta “Secessione dei Ventitrè”. In polemica con la pittura accademica del chiaro-scuro e della prospettiva, rifiutano i temi storici e mitologici alla Morelli e si rivolgono con occhio attento alle esperienze impressioniste e post-impressioniste.

Sono di questi anni altri movimenti artistici napoletani, come il “Gruppo Flegreo” che intendeva rivitalizzare la tradizione pittorica meridionale, quella degli “Ostinati”, più vicino alle esperienze artistiche del ‘900 o i pittori del “Quartiere Latino” accomunati da uno stile di vita e artistico bohèmien.

Senza trascurare poi che, sempre ad inizio secolo, anche Napoli subisce il fascino del Futurismo, soprattutto con Emilio Notte, Francesco Cangiullo e i circunvisionisti, che ebbero certamente il merito di costituire un salutare scossone per la cultura artistica napoletana.

Tutti questi fatti, senza escludere l’affermazione politica del fascismo, sono collocabili per nascita entro il decennio degli anni venti, che si conclude con l’arrivo all’Accademia di Belle Arti nel 1929 di Emilio Notte. E da qui cominceranno a verificarsi fatti nuovi nell’arte napoletana.[4]

Quando Notte si trasferì a Napoli era preceduto da fama notevole. Alle sue spalle già si snodava una carriera di importanti avvenimenti. Aveva lasciato la nativa Ceglie Messapica, presso Brindisi, diciannovenne appena nel 1912, e aveva lungamente soggiornato a Firenze, in seguito a Milano. Sono queste le stagioni in cui entrambe le città vivono esperienze culturali addirittura decisive. Il Futurismo, in particolare, è attivamente dibattuto dalle giovani generazioni del tempo che intravedono in esso lo strumento più idoneo per attuare un concreto rinnovamento dell’arte italiana, ancora prigioniera negli orti brevi degli epigonalismi ottocenteschi, per farla respirare in consonanza con le avanguardie europee. Appunto il Futurismo sarà il primo amore di Notte. La milizia futurista di Notte non è improntata ad un’adesione passiva ai postulati di un manifesto né a un recupero di forme e metodi degli artisti che quel manifesto avevano firmato. L’artista appare anzi impegnato in un’attenta revisione critica in vista di un linguaggio autonomo, chiaramente distanziato rispetto alle formulazioni del Futurismo storico 1909-10.

La Prima Guerra Mondiale non era ancora finita, quando decise di stabilirsi a Milano, dove giunse nel marzo 1918; giusto in questo periodo egli avverte i limiti insiti nella poetica futurista in rapporto alla sua vocazione, avverte cioè il pericolo, perseguendo quella poetica, d’inaridirsi nella freddezza di un’astrazione mentale. Quella vocazione prorompeva infatti, nitida e insopprimibile, pretendendo una pittura fondata su cadenze esplicitamente figurali, capace di testimoniare intorno alla condizione dell’uomo e della società. Nel 1929 ottenne la cattedra di Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Napoli. In questa stagione, che segna in Italia il trionfo della restaurazione novecentista, Notte è l’instancabile indagatore dei domini più fecondi della cultura artistica europea. Rimedita la lezione degli Impressionisti, che lo avevano sedotto fin nella giovinezza, soffermandosi in particolare sulla costruttività di Cézanne e sul colore di Renoir, ma tiene l’occhio rivolto anche a Picasso e al Cubismo.

L’impatto con la realtà dell’Accademia partenopea fu certamente non facile. In quel periodo imperversava il peggiore morellismo di maniera e in questa stagnante e attardata gestione didattica dell’istituzione artistica partenopea piombò quasi senza preavviso Notte, personalità che aveva maturato i motivi della sua ispirazione in seno alle avanguardie europee; perciò il corpo docente immediatamente cercò di isolare e addirittura di espellere un elemento ritenuto estraneo all’ambiente. Questa ostilità deriva dal fatto che a Napoli egli pensò di conciliare la veste istituzionale e tradizionale del professore-accademico con l’abito rivoluzionario dello sperimentalista. Inoltre, bisogna ricordare che Notte mantenne i suoi contatti con Marinetti e con gli amici futuristi; infatti, negli anni Cinquanta, incominciò a rivisitare il suo stesso periodo futurista. Ma il dato interessante consiste nel fatto che questa rivisitazione avvenne all’interno dell’Accademia, praticamente sotto gli occhi degli allievi di Notte, il cui studio era aperto a tutti, anche agli esterni.

Ora, dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Cinquanta, nella scuola di Notte si iscrissero non a caso artisti come Goffredo Godi, Armando De Stefano, Maria Palleggiano, Eduardo Palumbo e innumerevoli altri. Anche nelle scelte accademiche Notte appoggiava quegli artisti che più di altri si erano dimostrati aperti alle avanguardie. In definitiva egli influì su una parte delle avanguardie napoletane, soprattutto assecondando la naturale espressività dei suoi allievi, sicché dal suo magistero, accanto ad artisti tradizionali ma di ottima scuola, emersero quei nomi che in seguito dimostrarono la loro tempra di sperimentalisti.

Dunque, dato saliente di questi eventi è la volontà di scrollarsi di dosso l’ottocentismo e di agitare una ventata di aria nuova; ma l’adesione marcata al clima di «Novecento» evidenzierà che le aperture in direzione europea verranno presto ricondotte in un clima molto più chiuso ed asfittico che ridimensiona gli sforzi più generosi di innovazione e ricerca; esso costituirà, in fondo, un alibi, per consentire al più vieto tradizionalismo di ri-legittimare la propria ormai insopportabile sopravvivenza[5].

Giova osservare, innanzi tutto, che «Novecento» nasceva nel 1922 e presto si connetteva col regime a partire dalla presentazione da parte di Margherita Sarfatti alla Biennale di Venezia del 1924. Le modalità proprie delle scelte di «Novecento» erano il richiamo ad un monumentalismo che esaltasse la dimensione nazionale dell’italianità, prendendo avvio da quel processo di rielaborazione della pittura protorinascimentale italiana su cui «Valori Plastici», fin dal 1919, aveva preso a lavorare per mettere capo ad una nuova spazialità piena, corposa, definita nei suoi equilibri e nei suoi volumi.

Di fatto, «Novecento» a Napoli produsse un’azione frenante di quella ricerca di apertura ad esperienze più larghe che si era tentato di avviare.

Due artisti, Vincenzo Ciardo (1894-1970) e Giovanni Brancaccio (1903-1975) sono, tra le molte altre, le personalità di riferimento per comprendere la particolare declinazione che ebbe a Napoli il movimento di «Novecento» ed il rapporto che si creò in ambito napoletano tra le nuove modalità emergenti ed il lascito della tradizione.

Ciardo e Brancaccio erano stati allievi di Leon Giuseppe Buono e rimanevano legati a quella impostazione compositiva: «Novecento» fu certamente l’apertura di un nuovo orizzonte, che, tuttavia, non valse mai a scalzare del tutto un tributo alla tradizione paesaggistica post-posillipista.

Ciardo a Napoli ha un suo peso per quella ricerca di abbandono di forme tradizionali e per l’accostarsi sempre più, nella forma e nello stile, a movimenti più attuali, nel caso specifico l’impressionismo e il post-impressionismo mediati attraverso la Scuola Romana. Infatti egli, attratto come era dalle luci, dai colori e dal calore del sud, si dedica ad una ricerca vedutista che ricrea, secondo il suo sentire in maniera più drammatica e vibrante, alcuni caratteri della tradizione pittorica partenopea. Non è dimentico di Gigante, di Toma e De Nittis; infatti, l’originale pennellata di Gigante è servita a Ciardo per una più naturalistica espressione del vero, dal De Nittis prende quel senso lirico che caratterizzò i paesaggi pugliesi del primo periodo di questo maestro. Ma tutto ciò vive in Ciardo come bagaglio culturale da cui attinge e che fa proprio. È qui che comincia lo studio dei suoi paesaggi eludendo il troppo superficiale vedutismo che ancora persisteva verso il 1930 a Napoli e riusciva con attento studio a far trasparire in maniera nuova dai suoi quadri il sentimento lirico gia proprio della Scuola di Posillipo, lirismo che, però era stato offuscato e frainteso dai più deteriori seguaci. E tale opera rinnovatrice di Ciardo fa strada a un soffio nuovo d’arte pura che entrerà impetuoso tra il manierismo e il vecchiume che soffocava a Napoli ogni vera e possibile forma d’arte[6].

Più aperto, Brancaccio è senza dubbio il pittore napoletano che maggiormente ha saputo infondere alla pittura napoletana una spinta come possibilità di sviluppo, ed egli infatti, pur assumendo spunti all’esterno, rimane legato alla pittura napoletana sia per la particolare tipologia figurativa sia per l’impianto coloristico. Agli inizi, le capacità tecniche e di sensibilità coloristica vengono ad essere messe in luce dalle perfette composizioni di sapore classicheggiante, ma verso gli anni Trenta l’artista perviene ad una sintesi rappresentativa, per la maggior parte nei ritratti, in cui è da avvertire un plasticismo, anche volutamente spigoloso che sarà, unitamente all’impianto coloristico della tavolozza, costante inequivocabile dell’artista. Tuttavia, in seguito, il senso realistico emergente dalle sue prime composizioni viene a passare in secondo ordine, giacché l’artista vuole non più rappresentarla nella sua esteriorità, ma cogliere in essa gli aspetti piacevoli o dolenti a secondo appunto il suo particolare stato d’animo; nei suoi quadri ricorrono il mito popolare, magnificenze, legenda, impulsi e tensioni che anche quando si frammentano non perdono corposità.

Significativa è anche la personalità di Manlio Giarrizzo (1896-1953), che dal ’37 è a Napoli per insegnare all’Accademia; ma la sua volontà di innovazione è troppo debole per incidere sull’ambiente napoletano. Solo nell’immediato dopoguerra attiverà un generoso tentativo di aggiornamento, mostrandosi attento e curioso osservatore d’un panorama internazionale prontamente recepito nelle sue linee di forza; infatti non esiterà a mettere se stesso in discussione attingendo una dimensione figurativa prossima a quella temperie che Lionello Venturi definì «astratto-concreto», dimostrando una versatilità eccezionale che l’avrebbe condotto da una dinamica figurativa post-impressionista a soluzioni di grande spessore creativo, potendosi apprezzare un risultato già di tipo informale che si articola su un reticolo compositivo di marca cubista.

Gli anni Quaranta sono caratterizzati per la prima parte dalla condizione bellica del secondo conflitto mondiale e, per la seconda parte, da un processo generale di rinnovamento che si segnala perché segna una frattura netta con la prima metà del secolo, inaugurando una nuova stagione, interrompendo il processo di disimpegno generale dell’arte ed inaugurando una concezione dell’arte come impegno sul piano civile e sul terreno dei contenuti.

Dopo la guerra, il clima della ricostruzione era ricco di fermenti positivi, ma emergeva netta la distanza dalle esperienze europee di cui si aveva scarso sentore. All’Accademia erano ancora attivi molti degli artisti[7] che abbiamo incontrato negli anni fra le due guerre. Hanno sicuramente lasciato un’impronta nella formazione delle generazioni successive Notte, Brancaccio, Ciardo e Giarrizzo che, se pur dediti ad una figurazione di tipo naturalistico, riescono ad infondere quei temi e modi di fare pittura che si mostreranno mezzi educativi non indifferenti all’informazione di un pubblico apatico e dedito alla sola contemplazione di quadri rappresentanti paesaggi oleografici di una Napoli fin troppo spesso riproposta.

Su questa realtà che in sintesi ho cercato di mettere in luce si fa strada la proposta artistica portata avanti nel 1947 dal “Gruppo Sud”, che era composto da giovani artisti[8] di varia estrazione culturale e di varia tendenza, i quali hanno capito che soltanto riunendo e raggruppando le forze intellettuali più avanzate si sarebbe potuto instaurare un concetto di cultura che portasse al superamento di una tradizione il cui peso soffocava ogni tentativo rinnovatore. È in quella data che si gettarono le basi di una cultura artistica moderna napoletana; in poche parole è in quell’anno che possiamo rintracciare l’inizio della fase dell’avanguardia artistica napoletana.

Così conformato il gruppo si presenta per circa tre anni pubblicamente in rassegne che rappresentano i primi atti provocatori per un cambiamento di direzione dei concetti artistici. Esso era sostenuto dalla rivista «Sud» diretta da Pasquale Prunas che diventa il portavoce e la guida del gruppo.

Ma come succedeva per i primi raggruppamenti italiani[9] così anche per il Gruppo Sud si ha una confluenza di artisti che già allora mostravano interessi e tesi diverse. Da un lato tra i realisti, fautori di una pittura di stampo figurativo che prende le mosse da vari spunti referenziali e che propone esiti che vanno da declinazioni post-impressioniste a tangenze con la «Scuola Romana» a sensibilità post-cubiste ed espressioniste, compaiono Raffaele Lippi, Armando De Stefano, Tarchetti, Montefusco, Starnone, Florio. Dall’altro tra gli astrattisti, che prendono intanto ad elaborare ricerche parallele a quelle dei «concretisti» milanesi, si segnalano Barisani, De Fusco, Tatafiore e Venditti.

Alla fine del 1949, comunque, lo sfaldamento interno del gruppo diviene processo irreversibile e già dal ‘50 se ne rendono visibili ed autonome le due anime, realista e astrattista, che prendono ad operare in modo separato.

Armando De Stefano (1926), personalità autentica dell’arte napoletana, è attore di primo piano in tutti gli avvenimenti artistici della città dal 1947 in poi; infatti dopo l’adesione al Gruppo Sud matura certi intenti che dal ‘50 al ‘57 ben si allacciano al clima neo-realistico, ma con una sua precisa e particolare fisionomia, determinata da una capacità segnico-disegnativa che sarà la costante del suo arco operativo e il mezzo indicativo di tutte le sue ricerche. Sono soprattutto i suoi disegni – nervosi, scattanti, costruiti con grandissima sapienza naturalistica – a rivelare un talento dalla vitalità impetuosa, ed a stabilire la misura di una profonda vena inventiva. Tuttavia si tratta soltanto di una precoce fase interlocutoria, e infatti quelle stesse composizioni, tradotte in pittura, denunciano un più ampio registro di ricerca, profondamente trasformate da un violento senso del colore, di cosciente ascendenza espressionistica, al punto che viene a distaccarsi dal mondo neorealista, anche se ne manterrà sempre alcuni aspetti, per aderire ad un neorealismo materico; infatti l’uomo o le cose nei loro contorni che ne definiscono la forma vengono ad essere ottenuti scavando quasi un solco nel sostrato spesso del colore. Insomma, se i quadri sino al ‘58 circa erano portatori di un dramma sociale e di conseguenza della relativa angoscia che ne deriva, ottenuta per costruzioni di volumi uomo-ambiente, dal ‘58 in poi i dipinti mostreranno sì quell’angoscia iniziale ma determinata dai nuovi mezzi con cui i quadri vengono strutturati: colori spessi e forti, perché impegnato in un’area che per molti aspetti si richiama a quella dell’Espressionismo materico e astratto. In apparenza un vero cambio di rotta, senza rinunciare però mai all’immagine, la quale non scompare, ma si fa materia, segno, affiora dalle sovrapposizione dei colori o ne resta sommersa, ma in ogni caso è presente.

Anche Raffaele Lippi(1911-1982) è stato uno dei protagonisti delle vicende artistiche napoletane, soprattutto nell’immediato dopoguerra. Dopo alcune esperienze di tipo naturalistico, perviene all’adesione al più vasto movimento che allora si andava diffondendo in Italia: il Realismo[10]. È un’adesione non tout-court, ma con prerogative esistenziali, anche quando il sostrato dei dipinti inneggia ai temi sociali. Il neo-realismo di Lippi non è da intendersi quale partecipazione fidelistica a quel programma, ma è da guardarsi appunto quale spunto per una dialettica più vasta proprio per i molteplici aspetti che in essa erano implicati.

Quindi dal ‘50 in poi il Lippi, per aderire ai nuovi canoni che si erano affacciati a Napoli, rinuncia a quella spontaneità coloristica che si era andata evidenziando nei suoi primi dipinti.

Dunque, nel caso di Lippi si era trattato di un’esperienza contraria alla sua natura più vera, che era e sarebbe rimasta quella di un grande espressionista, molto lucido nell’esternare il suo individualismo ora lirico ora disperato. In una corretta ricostruzione storica degli anni ‘50 a Napoli va dato il giusto peso ad una circostanza non del tutto casuale, ma determinata da ricerche che singoli artisti andavano compiendo, che inserisce l’arte napoletana in una situazione d’avanguardia non solo nazionale ma addirittura mondiale.

Siamo nel 1951, quando da un incontro di Baj e di Dangelo, le cui opere avevano in comune la possibilità di evidenziare una sorta di figurazione potenziale emergente dallo stendere il colore quasi casualmente, nascono le premesse del movimento nucleare, di quel particolare movimento che ha voluto rompere con gli accordi monotoni della pittura formalista. A sottolineare la loro ansia così attuale, si sono chiamati nucleari; essi hanno voluto distruggere la pittura e così, una volta disintegratala, tentano di ricomporla, ne ricercano i simboli e le ragioni di vita. Sono in una fase che diremo di prefigurazione e la loro materia prende una forma che, se non è ancora definita, è in divenire.

Questo ritorno, per quanto involuto, a una figurazione e quindi all’uomo (involuto appunto nella dimensione del casuale che dimostrò la poetica di questo nuovo rappresentare quasi autogenerantesi) è alla base del movimento nucleare.

Ma a Napoli ricerche di questo tipo, condotte in via assolutamente autonoma, dal ‘52 in poi le conduceva Mario Colucci, che nasceva da una costola di Emilio Notte e che aveva avuto un accostamento alle stesse esperienze del Gruppo Sud e del MAC napoletano.

Per cui, se Colucci aderirà al gruppo ed anzi ne sarà unitamente a Baj un artista di primo piano, lo si dovrà al caso. Infatti, da una testimonianza di Baj apprendiamo che quest’ultimo scopre che a Napoli si stanno eseguendo ricerche simili alle sue, grazie ad un articolo de “Il Mattino”, Esplode un’atomica nell’Accademia napoletana, che gli arriva tramite l’Eco della Stampa; incuriosito da questo articolo sulla “pittura cosmica” di Colucci, si mette in contatto con lui per conoscerlo[11].

Ma la pittura di Colucci, a differenza degli altri esponenti del gruppo nucleare ancora sostanzialmente su posizioni tachistes (termine che indica un genere di pittura che si avvale di macchie e chiazze di colori al di là di intenzionalità, in esse implicite, figurali), unitamente a quelle di Baj ha un sottofondo figurativo.

Lo stesso Colucci, nel puntualizzare le caratteristiche della sua pittura, afferma: « Ho avvertito una volontà enorme di penetrare macchie, ghirigori, e ogni colatura, di plasmare forme, immagini e simboli, come da un caos primitivo; di ridurre di volta in volta ogni possibile casualismo; di condensare un magma di fosforiche vernici attorno a simboli che da “nucleari” si voltano in naturali. In questi simboli è il nucleo del linguaggio artistico necessario all’espressione di questo mondo che sentiamo crearsi attorno a noi, di giorno in giorno». E con le ricerche di Colucci,[12] si può dire finalmente che Napoli ha superato, anche se non globalmente in quanto la base della cultura locale è ancora legata a concetti tradizionalistici, la fase provincialistica per partecipare all’avanguardia nazionale.

Se agli inizi del ’50 abbiamo una partecipazione all’avanguardia, a conclusione, non possiamo e non dobbiamo dimenticare quegli artisti che, portando avanti un discorso che avevano appreso frequentando i normali corsi accademici, lo risolvono superando da soli l’arduo cammino (assenza di critica e altro) in un ambito personale. E qui ricordiamo ad esempio Goffredo Godi, Alfonso Pone, Enrico Cajati ed altri ancora[13]che, se pur dedicandosi ancora (1950 ed oltre) ad una sorta di naturalismo, sono riusciti non solo ad offrire dei suggestivi aspetti ma anche ad ottenere consensi in concorsi di un certo livello; e alcuni, superando gli spunti dei maestri, riusciranno a trovare una loro validità anche sul piano dell’avanguardia.

Immacolata Marino



[1] Nel contesto della trattazione cercherò di mettere in evidenza la linea figurativa che ha caratterizzato la pittura napoletana.

[2] Cfr. M. Picone Petrusa, Arte a Napoli dal 1920 al 1945: gli anni difficili, Electa Napoli, 2000, p.10.

[3] Cfr. Munari-Rea-Ruju, Linea figurativa napoletana, 1930-1980, Centro D’Arte Serio, Napoli, 1980, p.9.

[4] Cfr. Enrico Crispolti, Futurismo e Meridione, Electa Napoli, Napoli, 1996, pp.270 ss.

[5] Cfr. Rosario Pinto, La pittura napoletana del Novecento, Istituto grafico editoriale italiano, Napoli, 2002, p.72.

[6] Cfr. Ciro Ruju, Storia dell’avanguardia artistica napoletana (1950-1970), Edizioni Devoniane, Napoli, 1983, p.10.

[7] Cfr. M.Picone Petrusa, La pittura napoletana del ‘900, F.Di Mauro, Sorrento, 2006, p.55.

[8] Il Gruppo Sud non nasce unitario ed in una data precisa, nel senso che l’incontro degli artisti viene a concretizzarsi in tempi diversi sino a raggiungere nella rassegna del giugno 1948 alla Galleria Blu di Prussica il massimo numero di esponenti: Artico, Bruno D. F., De Fusco, De Stefano, De Veroli, Florio, Gargiulo, Lippi, Montefusco, Starnone, Tarchetti, Tatafiore, Ricci (pittori); Barisani, Amoroso, Capasso, Guida, Venditti (scultori).

[9] In questi anni in Italia si va sempre più accentuando la polemica tra una pittura realista ed una pittura astratta. Da un lato abbiamo artisti che accentuando la tesi di una pittura contenutistica si estraniano in un primo momento da una ricerca formale pura sui mezzi espressivi e danno corso a una pittura rappresentante la realtà nei suoi aspetti più immediati e particolari. Dall’altro lato abbiamo artisti che,approfondendo la ricerca sulla pura forma, daranno corso alcuni ad una pittura astratta, nel senso che sarà sempre la realtà circostante ad ispirarli ma che nel contesto dell’opera per una deformazione delle forme e colori diverrà astratta; ed altri ad un arte concreta, ovverosia ad una pittura che nasce astratta nel senso appunto che queste forme proposte sulla tela non hanno nessuna attinenza con la realtà circostante.

[10] Cfr. Ciro Ruju, Storia dell’avanguardia artistica napoletana (1950-1970), Edizioni Devoniane, Napoli, 1983, p.37.

[11] Cfr. M. Picone Petrusa, La pittura napoletana del’900, F. Di Mauro, Sorrento, 2006, p.71.

[12] In seguito, la pittura nucleare di Colucci avrebbe prodotto un largo seguito di consensi, dapprima con l’adesione di Elena Cappiello, di Guido Biasi e di Libero Galdo, poi con il sopraggiungere di quella generazione di rincalzo che avrebbe animato sullo scadere del decennio il «Gruppo 58», introducendo nel titolo stesso del proprio manifesto il puntuale richiamo alla pittura nucleare. (Manifesto del Gruppo 58 Movimento di pittura nucleare).

[13] Cfr. Rosario Pinto, La pittura napoletana del Novecento, Istituto grafico editoriale italiano, Napoli, 2002, p.102.


  Opere   Contributi   Ragionamenti   Home