«Preferisco dipingere dal vero perché il vero mi dà la possibilità di analizzare, scoprire ed evidenziare i ritmi nascosti nella natura. Essi forniscono all'uomo, che inconsapevolmente li accetta, sostanze liriche capaci di irrobustirgli lo spirito fino alla formazione della personale coscienza».  

Sono cresciuto in una famiglia di Ercolano, abitavo al pian terreno di una casa assai modesta, presso i famosi Scavi della città ricoperta dalla cenere e dai lapilli eruttati dal Vesuvio durante l'eruzione del 79 dopo Cristo, che cancellò anche Pompei e Stabia. Allora, negli anni della mia infanzia, Ercolano si chiamava Resina e lì, poco dopo la metà dell'Ottocento, c'era stata la famosa “Scuola di Resina”, formata da un gruppo di artisti innovatori, tra i quali De Nittis, che ruotavano attorno a un pittore locale, Marco De Gregorio. Da adolescente ho dipinto parecchi quadri negli Scavi, quasi tutti del formato 30 cm. x 40, un formato che è rimasto poi tra quelli che ho prediletto nella vita.

Sin da quando frequentavo le scuole elementari, disegnavo e dipingevo. Il pomeriggio lavoravo da garzone in una sartoria, la mattina alle sette, o poco più, andavo a casa del sarto, don Giovanni Felleca, per prendere le chiavi della bottega, tiravo su la serranda, accendevo il fuoco, che doveva servire a scaldare i grossi ferri da stiro, salutavo il primo dei lavoranti sopraggiunto e andavo a scuola. Il maestro era un prete, don Liberato Coppola. Egli conosceva le disagiate condizioni della mia famiglia (mio padre faceva lavori saltuari), sapeva tutto di me e mi indicava come un ragazzo esemplare. In realtà, finite le elementari, ero già un piccolo lavorante, guadagnavo ogni settimana una sommetta che “il principale” corrispondeva agli aiutanti la domenica mattina. Un giorno che il sarto Felleca era andato a Napoli per consegnare un abito, profittai della sua assenza per fare un ritratto a matita a una delle lavoranti, Giuseppina. Entrò nella bottega un signore, guardò il disegno e disse: «Ma tu sei bravo! Senti, tu sai che a Torre del Greco c'è la Scuola d'Incisione sul Corallo e delle Arti Decorative? Bene, lì c'è un professore, mio amico, che potrebbe esserti utile. Voglio parlargli di te». Quel signore era un pittore di Torre del Greco, forse sulla settantina, con lunghi capelli bianchi, si chiamava Luigi Palumbo. Un tipo autorevole ed eccentrico, con la cravatta a fiocco. Seppi in seguito che era venuto nella sartoria non già per caso ma perché un artigiano decoratore, un amico del sarto, mi aveva visto disegnare e gli aveva parlato di me.

Mio padre aveva ottenuto un imbarco tramite il sindacato della gente di mare, così i miei genitori, Filippo e “Peppinella” Vitiello, amatissimi genitori adottivi, poterono iscrivermi ai corsi regolari di quella Scuola d'Arte che portava il nome di Maria José del Belgio, principessa di Piemonte, e che innalzava la tradizione vesuviana della pesca e della lavorazione del corallo, per cui Torre del Greco rivaleggiava con i centri d'eccellenza giapponesi.

In quella prestigiosa scuola ebbi la benevolenza di due professori, che furono distinti artisti: Giuseppe Palomba, pittore e scultore, nonché straordinario incisore di cammei, veri e propri pezzi da museo; e Renato Ferracciù, poliglotta e pittore formatosi a Firenze nella bottega del Fattori, ormai vecchio. Questo mio insegnante accendeva la mia fantasia e veramente mi volle bene, mi aiutò in tutti i modi, persino inviandomi dei vaglia, a nome della Scuola d'Arte, quando, anni dopo, ero militare al fronte. Egli parlava correntemente il giapponese intrattenendo cordialmente gli ospiti-rivali del Sol Levante che visitavano l'istituto, aveva per moglie una signora russa sfuggita alla rivoluzione del 1917 e doveva aver avuto, in gioventù, uno stretto sodalizio con uno degli uomini più potenti degli anni Trenta: il ministro Bottai. Infatti, sulla sua scrivania c'era una foto di quel ministro con la dedica “Al mio fratello di latte Renato Ferracciù, Giuseppe Bottai”. Francamente però, la lavorazione del corallo e l'incisione del cammeo non m'interessarono mai e mi tenni ostinatamente lontano da quei due impegni scolastici. Per cercare di correggermi, un anno mi rinviarono alla sessione autunnale, poi si rassegnarono e mi lasciarono alle mie vocazioni: la pittura anzitutto, e anche il disegno. Sono stato allievo di quella gloriosa Scuola d'Arte (ma sarebbe più esatto dire dei maestri Palomba e Ferracciù) dall'autunno del 1935 alla primavera del 1940. A Palomba devo la conoscenza dei piani, conseguita anche attraverso la pratica del modellato, poiché ho fatto molta esperienza di scultura in creta. A Ferracciù devo, invece, tutto quello che so della storia dell'arte considerata nei suoi contesti storici, filosofici, culturali in genere. Dopo aver terminato i corsi della Scuola e concluso il Corso di Perfezionamento, fui chiamato come soldato di Fanteria al 67° Reggimento di istanza al fronte francese e successivamente al fronte greco-albanese, dove, nelle trincee innevate, subii un congelamento ai piedi, fortunatamente - rimpatriato in Italia e curato nell'Ospedale Militare di Modena - i medici riuscirono ad evitarmi una doppia amputazione. Seguirono tre mesi di convalescenza a casa, durante i quali ripresi gli studi e mi preparai a sostenere gli esami di ammissione all'Accademia di Belle Arti di Napoli, li sostenni in divisa, con la Croce di Guerra in petto. Fui promosso a pieni voti e subito dopo raggiunsi il Reggimento in Liguria, da dove fui trasferito a Grasse, sulle colline delle Prealpi Marittime a poco più di quindici chilometri da Cannes. La Francia si era arresa, eravamo, assieme ai tedeschi, truppa d'occupazione; furono un paio d'anni di vita militare tranquilla, animata persino da qualche “siparietto” (era commilitone il comico napoletano Dante Maggio); sicché potei dipingere e studiare. In seguito vennero i due anni più terribili della mia vita. Dopo l'8 Settembre 1943, il mio reparto, che era aggregato al 1° Corpo d'Armata, si arrese ai tedeschi ed io, come gli altri miei commilitoni, fui internato nel campo di prigionia di Limburgo, in Germania, dove penai sino a quando l'esercito americano non prevalse, e la guerra finì. Tornai nella casa di Ercolano alla fine del 1945, feci l'operaio (si aggiustava la strada che dal Vesuvio va a Torre del Greco) e in seguito, favorito dalla condizione di ex combattente, fui assunto come impiegato provvisorio dal Comune, addetto in un ufficio che preparava le elezioni del giugno 1946 (il voto per l'Assemblea Costituente e per il referendum istituzionale). Naturalmente, ero in attesa di potermi iscrivere all'Accademia di Belle Arti di Napoli, che per me era un sogno. M'iscrissi e per quattro anni, fino al diploma, quasi quotidianamente ebbi la fortuna di stare accanto a un artista importante, di fama nazionale, che è stato il mio riconosciuto maestro, Emilio Notte e di avere per compagni valorosi pittori - cito per tutti Armando De Stefano. Sono poi diventato professore nei Licei Artistici di Napoli e di Roma e ho avuto tra gli allievi dei giovani, saliti alla più larga notorietà, da Alfano a Paladino.

Amo dipingere la figura, ma di più il paesaggio. Fin da ragazzo, per naturale istinto e con gioia, cominciai a fare paesaggi nel piccolo porto del Granatello, a Portici. Ci arrivavo dalla mia povera casa di Ercolano in un quarto d'ora di cammino. Piantavo il cavalletto sul molo e potevo vedere navi, barche, un po' di spiaggia e la strada ferrata sulla destra. Non era un luogo pittoresco ma pittorico sì. Venivano là a dipingere Luigi Crisconio, Ettore Sannino ed Enrico Placido, che abitavano a Portici. Spesso arrivava da Pozzuoli anche Leon Giuseppe Buono, la cui pittura faceva onore al cognome. Con lui mantenni, in seguito, cordiali rapporti, e mi piace ricordare che, quando ero diventato studente dell'Accademia, apprezzando i miei quadri, mi condusse alla Galleria Maresca, vicino alla piazza Municipio, per farmi vendere qualche dipinto. In quella galleria notai molti quadri commerciali. Lo ringraziai e finì lì. Tornando alle primissime esperienze del Granatello, tornerò a dire quel che ho detto altre volte: e cioè che cominciai guardando bene la cassetta di Crisconio - pittore di sicuro mestiere - per costruirmene una uguale, anzi migliore, se possibile. Più che con gli altri pittori del Granatello ebbi consuetudine con Sannino, che era anche scultore e, anzi, col tempo divenne più conosciuto, nell'area vesuviana, come scultore che come pittore.

Nella mia vita di artista non sono mancate le soddisfazioni, i riconoscimenti e anche le vendite. Giurie autorevoli mi hanno ammesso a due Quadriennali, la VII del 1955 e la VIII del 1959; ho partecipato alla grande Mostra del Mezzogiorno allestita a Roma. Ho due quadri acquistati dal Quirinale (vedute dei giardini di quel Palazzo) e uno nella Villa Carpegna, sede attuale della Quadriennale di Roma. Ho scoperto con enorme ritardo che di un mio quadro, “Il bosco di Portici”, discussero due dei maggiori critici del Novecento: Arcangeli e Longhi, ne fa fede il “Carteggio Longhi-Pallucchini” edito da Charta, Milano, nel 1999, pag 326. Quanto alle vendite, non posso lamentarmi, infatti, non ho più dipinti dell'età matura e tanto meno della gioventù. Per molti anni ebbi contatti con la Galleria Turchetto di Napoli, che promosse alcuni buoni artisti negli anni Sessanta-Settanta.

Molte volte mi hanno chiesto del mio “modus operandi”. Dirò allora qualcosa. Prima di iniziare a dipingere un quadro, quali che siano le dimensioni e l'argomento da trattare, è necessario per me porre attenzione alla giusta distribuzione degli spazi che, in armonia con il colore, possono dare vigore lirico all'opera. Anzitutto, ad occhio divido il lato maggiore della tela in otto parti (non ho l'abitudine di disegnare) e con un pennello di media grandezza impasto il colore della tonalità che occorre e, procedendo da sinistra orizzontalmente, e via via modificando il tono mediante aggiunta di colore quanto occorre, procedo in questo modo fino a coprire tutta la tela. Poi ancora procedo e riprendo, modificando dove è necessario. Riguardo al paesaggio, per mia vecchia abitudine, prima di cominciare a dipingere rifletto molto sul modo d'impaginarlo. Si tratta di organizzare, dirò così, gli spazi che ho dinanzi e di eliminare gli elementi che non rientrano nella “economia” di quanto mi propongo di fare.

D'inverno, nello studio, faccio spesso dei dipinti che rappresentano gruppi di ballerine, o comunque figure danzanti, e sullo sfondo orchestrine. E' un tema che mi affascina e che ripeto, anche per esercizio. In questo caso mi servo di una regola prospettica, di un modulo a forma di triangolo, che io stesso ho immaginato e creato. Le figure da dipingere vengono idealmente collocate secondo i criteri previsti in tale triangolo.

Quanto alla figura, anche in questo caso, il primo soggetto fu mia nonna Mariuccia, avevo quindici anni. All'Accademia avevamo la modella, e dunque feci molti nudi. Le modelle cambiavano ma una di loro era chiamata più frequentemente, era una bella donna, formosa ma non grassa. Il maestro Notte non avrebbe mai accettato una donna troppo magra, e in questo egli seguiva l'esempio di Renoir e di tanti altri. Alle volte Notte faceva posare una persona che era al suo servizio, un certo Gaetano, che aveva bisogno di guadagnare qualcosa. Egli era di una certa età ed era interessante anche fare il busto o le gambe di un uomo le cui carni, i cui muscoli, avevano perduto il tono dei migliori anni. Nei ricordi autobiografici di Dupré incontrai le descrizioni di parecchi soggetti così. Non occorrono molte parole per dire, d'altra parte, che per un uomo il corpo femminile nudo è un soggetto pittorico che trasmette speciali stimoli estetici. Per quanto mi riguarda, direi che è più suggestivo di un corpo coperto dagli abiti e dico questo senza nulla togliere all'importanza che ebbe in antico l'insegnamento del drappeggio che ovviamente fu di derivazione barocca.

Come per il ritratto - e intendo la raffigurazione di un volto - non ho mai avuto una regola fissa neppure per procedere alla realizzazione di una figura né fui molto preoccupato della posa assunta dal soggetto, sebbene sia per me importante cogliere il momento della più evidente spontaneità.

Vorrei concludere, con una duplice osservazione che spesso mi ritorna alla mente e mi guida, essa si riferisce a un'opera famosa, e riguarda il colore. E dirò allora che il colore della carnagione che Tiziano, nella “Danae Farnese” del Museo di Capodimonte, ha splendidamente inserito sul corpo provocante della donna sdraiata sul bianco lenzuolo modulato da pieghe, rafforza il contrasto della sua luminosità ed esalta la fitta ombra interrotta dalla pioggia di monete d'oro che nasconde il seduttore Giove e dà forza all'apparizione di un baldanzoso amorino che funge da chiusura dell'arco della composizione. Non possiamo dimenticare che il colore, da volgare sostanza chimica, e purtroppo anche velenosa, quando è manipolato dall'artista, diviene materia capace di suscitare nell'animo dell'osservatore i più nobili sentimenti. Un’esemplare esaltazione del colore tramite la fitta ombra del naturalismo caravaggesco la notiamo nella “Conversione di San Paolo”, il celebre quadro di Michelangelo Merisi che è in Santa Maria del Popolo a Roma. Il santo, caduto in terra, ha le braccia aperte, levate verso il cavallo incombente: e il capo dello stalliere e la luce del manto dell'animale chiudono verso l'alto un mirabile concerto di ritmi ovalizzati.

Artisticamente, quali sono le mie origini? Ogni artista è partito da qualche stazione e, insomma, ha i suoi modelli originari. Ed io? Mi sono posto questa domanda, e parecchi me l'hanno posta. I primi insegnamenti - e lo ripeto sempre, doverosamente - li ho avuti da ragazzo nelle Scuola d'Incisione del Corallo e delle Arti Decorative. Avvicinandomi ai vent'anni, cominciai a guardarmi intorno per cercare di andare oltre i modelli dell'adolescenza, tra i quali, pure, c'erano - e l'ho già detto - pittori napoletani di buon mestiere, come Luigi Crisconio o Leon Giuseppe Buono. Visitavo mostre, sfogliavo riviste. A Napoli, dopo la guerra, c'era un certo fermento artistico.

M'iscrissi all'Accademia (ero tornato dalla guerra e dalla prigionia, avevo ventisei anni) e mentre nell'aula stavo dipingendo il mio primo quadro di allievo di Notte (era un manichino) il maestro si avvicinò, guardò e poi rivolto a un mio compagno, Armando De Stefano, disse sorridendo: “Abbiamo un piccolo Cézanne!”. Naturalmente, arrossii, come non sono arrossito mai. Cézanne è immenso. Ma è anche vero che, umilmente, tanti di noi veniamo “per li rami” da quello che abbiamo visto di lui. Grazie a lui, e a Notte, che a sua volta veniva da Cézanne, sebbene con sicura autonomia, io mi allontanai subito dal “napoletanismo” ottocentesco per cercare strade più recenti, che privilegiassero la sintesi. Leon Giuseppe Buono - pittore di buon mestiere, ripeto - mi condusse una volta a una galleria di Napoli, vicino a piazza Municipio, per vedere un po' se avessero accettato dei miei quadri. Vidi una parata di dipinti commerciali, rifiutai, benché avessi proprio bisogno di guadagnare.

In tanti anni la mia pittura ha avuto molti momenti. Ho cercato sempre di essere me stesso, di rifiutare le esperienze altrui, per quanto insigni, ma, non so se ci son riuscito. Dai “novecentisti” (Brancaccio/ Eugenio Viti, etc) che furono eccellenti pittori, credo di non aver preso nulla. Qualcuno disse e scrisse che alcuni miei paesaggi facevano pensare a un grande maestro che ho sempre ammirato: Morandi. E' vero? Non lo so. Altri notarono una stretta somiglianza con un buon maestro bolognese, che non ho mai conosciuto, Garzia Foresi. E' vero? Non lo so. Ogni artista ha vissuto in un certo tempo e, inevitabilmente risente di quel che accadeva in quel tempo. Ancora oggi, cerco di essere Godi e sperimento. Ultimamente mi affascina la “prospettiva a 180 gradi”, studio, lavoro e lascio agli altri l’arduo compito di interpretare il mio operato.

Ho amato e amo il ritratto, conservo ancora, dopo settantacinque anni, il ritratto di nonna Mariuccia, il primo che feci con i colori a olio. Ancora oggi lo considero riuscito, fatte salve le ingenuità dei miei quindici anni di allora. Da ragazzo ero molto minuzioso, l'esperienza mi ha poi fatto sempre più cercare la sintesi. Oggi, l'attenta lettura della muscolatura di un volto mi apre la strada alla comprensione dei piani di quel viso, attraverso i quali mi provo a far venire in evidenza il carattere del soggetto, i suoi sentimenti. Chi è in posa è attraversato da pensieri mutevoli e il pittore è come se li vedesse affiorare. Per me, il muscolo più eloquente, diciamo così, è il risorio, detto “del Santorini”, perché fu studiato nel Settecento da quell'anatomista veneziano. Mi ricordo sempre di quanto ci disse riguardo a quel muscolo, il professor Gastone Lambertini, docente nell'Accademia di Belle Arti di Napoli e professore di Anatomia nell'Università partenopea.

La mutevolezza dei pensieri innesca movimenti e qui è la difficoltà del ritratto, poiché l'artista deve star dietro ai cambiamenti del fattore spazio-luce. Neanche a dirlo, durante la mia lunghissima attività ho fatto molti ritratti a penna o a matita, ma devo confessare che né l'inchiostro, né la grafite mi danno soddisfazione. Infatti, benché ami il disegno, non sono tuttavia di quei pittori - e ce ne sono stati non solo di bravi e bravissimi, ma anche di illustri - che prima disegnano un volto e poi sul disegno vanno col colore. Io comincio subito col colore, metto sulla tela o sulla carta alcuni toni (e i toni sono il colore della luce) e vado avanti. Anche nel caso del ritratto, non volendomi privare della delizia del colore, parto dal principio che il colore debba diventare forma e non già la forma debba pre-esistere e poi colorarsi. Ripeto: la delizia del colore e aggiungo: la gioia che, anzitutto, scaturisce dal cammino che i gialli fanno verso i rossi.


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